Ennio L. Chiggio e Ugo Savardi dietro l’oggetto Bispazio instabile all’inauguarzione della mostra "Tribute to Arte Programmata", Accademia di Belle Arti di Verona, 2011.

 
     
   
 


Se prendete in mano una matita e in
A) la collocate orizzontalmente in modo da coprire l’incrocio delle linee, vedrete apparire un triangolo, così come in
B) se fate la stessa operazione; se in
C) la matita la collocate verticalmente, le due unità diventeranno una (i disegni sono quelli usati dagli stessi Michotte e Burke).

 
     
   
 


A: L’illusione di compressione di Kanizsa (1972).
Le due barre grigie orizzontali hanno la stessa altezza ma quella a sinistra appare più bassa.
L’effetto della compressione è circa del 5%.
B: Chiggio (1959): l’effetto di unificazione del rettangolo r sullo sfondo con la parte inferiore dello stesso grigio, resiste alle differenze di allineamento del lato destro, ammettendo anche una covarianza del disassamento dovuto all’effetto Poggendorff (C).

 
     
   
 


Immagine tratta da Insight, n. 9 (2000), p. 1.

 
     
   
 


Immagine elaborata dai lavori di Shepard, R.N. & Metzler, J. (1971).

 
     
   
   
   
 


Studenti della Laurea Specialistica e Magistrale della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Verona, impegnati nell’analisi delle opere della valigia di Alchimas durante il corso di Psicologia dell’Arte e dei processi creativi.

 
     

Ugo Savardi
L'Amodale



Introduzione
È assai difficile tracciare una regressione della vita artistica di Chiggio.
Gli scostamenti delle osservazioni dalla retta potrebbero mostrare una varianza che non permette di trarre conclusioni se non, appunto, tracciando tante storie quante sono i nuclei sui quali le sue ricerche artistiche si sono impegnate.
Una possibile soluzione, però, mi è stata offerta da una parola, AMODALE (DISLOCAMENTI AMODALI), che compare nel titolo di questo catalogo.
Adotterò questo “toponimo” per sviluppare una riflessione sui metodi e i fondamenti che troviamo presenti come una base sulla quale si appoggiano opere e pensieri di Chiggio, comunque sia il grado di esemplificazione di questo discorso.
La tesi di questo scritto, e ne anticipo le conclusioni, sostiene che la parola AMODALE nel titolo del catalogo non ha solo valore evocativo dei viaggi alla scoperta dell’ignoto, ma che il lavoro di Chiggio è stato tutto impostato fin dall’inizio per operazionalizzare in maniera formale la dialettica tra MODALE e AMODALE nel senso più coerente della ricerca percettologica nella tradizione Gestaltica.
Per sviluppare l’argomentazione, seguirò i seguenti necessari passaggi:
a) un richiamo etimologico del termine per mostrarne la coerenza filologica rispetto a tutta l’opera;
b) il modo in cui l’AMODALE viene operazionalizzato sperimentalmente nell’analisi delle figure a tratto e di superficie con tassellature;
c) quando l’AMODALE inizia il percorso dalla immediatezza dell’automatismo percettivo verso le funzioni superiori cognitive come il pensare o manipolare mentalmente le immagini;
d) come nella recente produzione di Chiggio ci sia spazio per una meta-riflessione tra l’opera d’arte, quella investita dalla natura dell’essere l’originale con la sua storia di primarietà nel rappresentare l’idea che l’ha sviluppata, e il modo in cui lo stesso / gli stessi manufatti delegati alla vita nelle mostre, musei e collezioni, possano e debbano essere fruiti e mediati nella quotidianità della esperienza didattica nei circuiti della comunicazione e della formazione sempre più attivi nei contesti universitari e museali.

Genesi del termine AMODALE
Il termine AMODALE ha goduto e gode di ampia attenzione nei laboratori di psicologia della percezione.
Non il lemma, ma ciò che questo indica in riferimento a un problema che coinvolge aspetti percettivi in senso stretto e implicazioni cognitive superiori come nei processi di mascheramento del pensiero e del ragionamento.
La prima volta che gli psicologi parlano di questo problema risale al 1951, anno in cui Michotte e Burke, al XIII Congresso Internazionale di Psicologia di Stoccolma, presentano un contributo dal titolo: “Une nouvelle énigme de la psychologie de la perception: le ’donné amodal’ dans l’expérience sensorielle”.
Con quel lavoro si introduce nella psicologia il fatto che la nostra esperienza del mondo è fatta con uguale dignità da oggetti dotati di parti visibili (MODALE) e oggetti, o parti degli stessi, che pure non visibili (AMODALI) contribuiscono al pari degli altri alla forma e al significato del mondo così come li percepiamo. Un altro modo per dirla, in maniera fisicalista, è così: la nostra esperienza degli oggetti del mondo non è garantita solo da quegli oggetti o porzioni di oggetti che hanno la proprietà di riflettere la luce (MODALI), ma anche da quelle parti degli stessi (AMODALI) che pure nascoste alla luce e quindi non in grado di mandare ai nostri occhi una testimonianza della loro presenza esistono grazie a indizi o, se volete, leggi che governano quegli indizi che li fanno esistere con pari dignità degli altri illuminati.
Mi rendo conto che la spiegazione può apparire, nel rispetto del titolo di Michotte “enigmatica”, ma se guardate e seguite le istruzione della fig. 1, vi risulterà chiaro il problema.
In quel lavoro, Michotte e Burke discutono ampiamente una casistica che va da figure semplici come queste fino alle figure tridimensionali e al movimento.
Ecco: fuor di metafora o semplice assimilazione analogica che una critica affabulata potrebbe fare del lavoro di Chiggio, questo è l’etimo sperimentale dal quale parte il termine AMODALE e a questo, a mio giudizio, ci si dovrebbe attenere comprendendone le implicazioni profonde quando si voglia parlare di percezione o fenomenologia della percezione.
Ne approfitto per precisare questi ultimi termini: “percezione” vs. “fenomenologia della percezione”.
Nel contesto dei riferimenti metodologici e teorici che il gruppo Enne si è dato, o si è sentito attribuire (Arte Gestaltica), contesto di fatto conservato e sviluppato in tutto il lavoro di Chiggio fino a oggi, c’è molta più coerenza di quanto non si immagini.
Ho “sfogliato” a lungo con gli studenti per anni le opere programmate: ogni pezzo è un problema, lo contiene e, ostensivamente identificato, è una presenza inemendabile e inter-osservata.
E questo, malgrado le resistenze naïf di alcuni che confondo la relatività del gusto estetico, per via delle diversità culturali, con il fatto che guidare un’auto o lanciare una freccia necessiti dello stesso apparato cinetico e cinematico e degli stessi algoritmi cognitivi per la valutazione dello spazio che appartiene a una realtà indipendente dall’osservatore.
Metzger (1963), uno dei padri gestaltisti che ha proposto una tassonomia dell’esperienza psicologica, distingue il termine percettivo da quello di presenza fenomenica proprio per potere farsi carico dell’AMODALE, per il quale non c’è tracciabilità fisica. Solo se ci è chiara questa necessaria precisazione potremo, in seguito, concederci certi gradi di sovrapposizione dei termini.
E solo se ci è chiaro che lo sforzo della ricerca di Chiggio è perlustrare l’esito sul percetto della manipolazione di un altro aspetto del percetto (quello che tecnicamente si chiama “percept percept coupling”, Bozzi 1976, Epstein 1982) che possiamo capirne la coerenza.

AMODALE e tassellature
Dai primi grafi 1956-1957, Chiggio inizia il percorso alla ricerca di tassellature che formino spazio.
Potrebbe esserci, al di là delle intenzioni ma nell’oggetto stesso, più di una semplice analogia tra il Monocromo oro-argento-nero del 1959 e le ricerche di Kanizsa (1972) sul restringimento fenomenico.
Considero questo un eccellente esempio di come i confini tra la ricerca di laboratorio e quella artistica di Chiggio siano separati unicamente dall’apparato metodologico della psicofisica che permette, al ricercatore accademico di trasformare, da Fechner (1860) in poi, le variabili metriche in funzioni algebriche che connettono la modificazione delle variabili fisiche alla modificazione del giudizio fenomenico.
Questa della psicofisica, o come da Kubovy & Gepshtein (2003) in poi si può chiamare, Psicofisica Fenomenologica, risulta l’unica differenza tra l’ontologia della esperienza artistica e quella scientifica: il fenomeno visto e operazionalizzato nelle sue variabili di forma, colore, dimensione è lo stesso e, spesso come la storia dell’arte intelligente ci fa vedere, anticipa la ricerca dello scienziato.
Ma questi sono anche i piani epistemici che differenziano il lavoro dello scienziato da quello artistico con una necessaria precisazione: la filosofia della scienza ci sta insegnando che la spiegazione dei fenomeni non giace su piani sovrapposti per importanza o presunta dignità nelle gerarchie delle spiegazioni, ma su regioni limitrofe complanari, tra le quali le osmosi sono peraltro più frequenti di quanto le frequenti divulgative trasposizioni analogiche, tra arte e scienza, possano alludere.

AMODALE: vedere e pensare
Credo che tutto l’apparato di ricerche riconducibili alle retinature o alle interferenze di Chiggio, non possa essere liquidato con poche osservazioni, e qui richiederebbe uno spazio eccessivo.
Mi limito a sottolineare il fatto che le variabili piani e loro forma, tipo di tessitura, numero di piani, luce e suo colore ecc. compongono una matrice di variabili il cui studio richiederebbe un disegno sperimentale complesso e che il futuro della ricerca sperimentale potrà analizzare.
La strada è aperta. Anche in questo caso, l’occhio endoscopico di Chiggio manipola variabili stratificate generando una catena causale di responsabilità amodali.
Le retinature e le interferenze possono essere considerate fenomenicamente un transito dagli studi sulla stratificazione dello spazio su superfici a tratto, allo spazio ecologico.
La composizione di piani sovrapposti, ognuno dei quali produce un rendimento sul successivo e un contributo alla variazione dell’esperienza globale, richiede al progettista l’attivazione di processi cognitivi in grado di integrare funzioni percettive primarie e processi di previsione/visualizzazione.
Anche in questo caso non è un semplice parallelismo vedere che le domande che Chiggio si pone sono analoghe alle domande della ricerca accademica: alla attività di ricerca con oggetti, Chiggio da anni affianca un percorso diaristico e una monografia annuale dal titolo Insight nella quale raccoglie alcuni suoi pensieri e osservazioni, secondo l’abitudine di “appuntare”, da sempre curata.
Alla pagina 1 del n. 9 (2000), tra alcune domande che pone (tra cui quella sul grado di primarietà del nero come tassellatura cromatica rispetto al suo omologo linguistico, variazione di ciò che accade nel famoso e ben studiato effetto Stroop dal 1935), c’è un’altra domanda che mi piace qui evidenziare per la sua attualità e per la consapevolezza che contiene circa l’importanza dei processi di elaborazione percettiva e cognitiva sull’AMODALE (vedi fig. 3).
La domanda: “Quale assetto ha prodotto il cubo iniziale a?” e le possibili soluzioni sviluppate (fig. 3A) contengono, metodologicamente, lo stesso assetto della ricerca sperimentale praticata in laboratorio.
Chiedersi come si possa analizzare la natura percettiva del cubo di Neker (a in fig. 3A) implica ammettere che una Gestalt debba essere studiata capendo in che modo si organizzano gerarchicamente le relazioni parte/tutto nel processo di scomposizione e ricomposizione.
Shepard e Metzler (1971), nei loro classici lavori sulle rotazioni mentali, chiedevano ai soggetti di identificare quale tra le coppie presentate contenesse lo stesso elemento iniziale ruotato: è evidente che la possibilità di rispondere adeguatamente al compito implica la rotazione del pattern coprendo e scoprendo di volta in volta le varie facce nascoste.

Didattica in AMODALE
Una rilevante parte della identità dell’esperienza dei GRUPPI, integrata nelle dichiarazioni di intento dei vari manifesti, è stata di sperimentare quella condizione che nella bibliografia psicologica contemporanea sui processi creativi va sotto il nome di “innovation processes in organizations” (per una sintesi degli attuali approcci all’area della creatività nelle organizzazioni, vedere il volume di Legrenzi 2005).
In generale questo ambito di ricerche riguarda lo studio dei processi che le persone, in un contesto più o meno di gruppo, mettono in atto per risolvere problemi inerenti allo studio e alla generazione di nuove idee per nuovi prodotti o forme di comunicazione (per esempio i processi decisionali nei sistemi organizzativi o semplicemente pubblicitari).
In questi studi si focalizzano questioni come, per esempio, la genesi dei processi creativi, i gradi di libertà delle dinamiche dei gruppi e come queste influenzino i processi che conducono a nuove idee.
Si tratta di capire come avviene il passaggio della conoscenza dal singolo al gruppo. Bozzi, in un famoso e citato lavoro (vedi Kubovy 1999) compara sinotticamente l’assetto metodologico della ricerca in laboratorio caratterizzata dal controllo delle variabili in maniera rigida, rispetto a un paradigma sperimentale nel quale il setting sperimentale è organizzato in un contesto di gruppo: i soggetti sperimentali, in piccoli gruppi (detti di interosservazione) interagiscono attorno allo stesso problema e la dinamica produce, dati alla mano, drastici effetti di riduzione della varianza d’errore e del “rumore”, mentre le proprietà emergenti del problema si impongono, resistendo a effetti di influenzamento sociale ben noti come l’effetto Asch (1946) o altri effetti di leadership.
Apparentemente non sembrano esserci drammatiche cesure tra la ricerca di laboratorio con soggetto singolo e quella effettuata in contesto gruppale ma, di fatto, sì.
Non voglio analizzare di fino le implicazioni di questa questione sul paradigma generale della ricerca in ogni suo luogo confrontando la figura dello scienziato che si specchia nei suoi pensieri e da questo riflesso ne trae ragioni di cambiamento con il modo in cui alcune migliaia di fisici, matematici, e ingegneri interagiscono attorno ai progetti del CERN a Ginevra.
Quella della ricerca e creatività condivisa nei GRUPPI sarebbe una questione da analizzare usando questa architettura di teorie e ipotesi. Qui però vorrei indicare un’altra diramazione di questo albero di questioni.
Alviani in una recente intervista, a una domanda sulla relazione artista-pubblico, rispondeva coerentemente: “Noi pensiamo soprattutto all’opera in se stessa, poi, è chiaro, che è diretta all’uomo, ma più come organo recettivo tecnico che come pubblico.
L’uomo preferisco pensarlo come strumento tecnico di ricezione”.
Il residuato di questa argomentazione è la seguente: come si deve progettare, per chi assume finalità didattica-educativa-formativa all’arte, un percorso di mediazione tenuto conto che l’interazione oggetto-pubblico, nell’arte programmata e cinetica, è parte integrante del progetto dell’oggetto/evento?
Chiggio ha recentemente, con il progetto AL[CHI]mas, aperto uno spiraglio e offerto una indicazione da prendere seriamente in considerazione.
Non entro nei dettagli del progetto (Insight, n. 17, 2010), ma superando l’idea del ready made o dei multipli, la Valigia Blu si propone con uno statuto ontologico che mantiene sufficientemente inalterato il valore dell’“originale”, grazie alla estrema cura della ingegneristica di produzione degli oggetti, mantenendo lo stesso vestito della interazione con lo spettatore dell’opera originale.
Ci si trova così, come è capitato a me quest’anno con i mie studenti, a condividere sullo stesso tavolo di un’aula universitaria, un’opera originale di Massironi e vicino, distribuite e manipolate da curiosi e divertiti studenti, le minisculture della Valigia Blu di Chiggio.
Lì, in quell’aula, ho visto chiudersi il cerchio: apparato bibliografico di testi classici, articoli su riviste scientifiche internazionali, opere vere, opere vere mancanti presenti nella traduzione nobile in scala della Valigia Blu, e studenti impegnati a preparare, come esame, percorsi didattici per due mostre vere: la riedizione della mostra Olivetti del 1962, e una mostra dedicata a M. Massironi. Una Valigia Blu che ha permesso di raccordare modalmente quello che altrimenti sarebbe amodalmente rimasto sulla carta di qualche catalogo o in immagini nel web.

Conclusione (per il momento)

È mio parere, come il complesso apparato di pensieri in questo catalogo e la mostra di Chiggio testimoniano, che anche quando la storia dell’arte avrà risolto la categoria “storica” dell’esperienza dell’arte programmata e cinetica, cioè le sue istanze di archiviazione e catalogazione, rimarrà ancora molto da fare per comprendere come quel patrimonio di ricerca su fatti e fenomeni percettivi possa continuare a contribuire allo studio della percezione e della cognizione, sollecitando i laboratori e i ricercatori accademici a un confronto, riannodando gli estremi di questo unico oggetto condiviso tra ricerca scientifica e arte.