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Roberto Masiero
Omaggio a Dedalo
Non l’arte, ma le arti: questo è il problema.
Ennio (mi scuso, ma per me Ennio Chiggio è semplicemente Ennio) nei suoi percorsi prova – mette cioè alla prova – i molti mondi dell’arte e i sempre problematici confini tra pittura, scultura, musica, architettura e – perché no? – grafica, design, fotografia, video, permornance, scenotecnica e potremmo inventarne altre.
Smodato? No!
Improvvido? Nemmeno.
Ennio sa esattamente che qui è il problema: perché c’è l’arte quando ci sono tante arti?
Perché le tante arti, il loro insieme, come il loro proliferare, non risolve il problema dell’arte, anche se qualcuno ha tentato di inquadrarlo introducendo il gioco retorico della poetica?
Ennio sa che questo non è un problema estetico ma gnoseologico, per non dire ontologico.
La sua domanda è: cosa e come conosco quando faccio e non certo come faccio a fare una cosa che possa interessare, sedurre, affascinare, o cogliere di sorpresa.
In Ennio c’è il continuo sospetto che nell’Arte con la “A” maiuscola ci sia un imbroglio o qualcosa di irrisolto (e forse irrisolvibile) e che per coglierlo sia necessario interrogare-praticare le arti nelle loro differenze non come patrimonio di una qualche trascendenza estetica o dell’estetica, ma come presenza della stessa finitudine umana e di ciò che chiamiamo necessità.
L’arte è l’umano troppo umano, e considerata al di là di questo è mera idolatria, cioè un tentativo ipocrita di innalzare il troppo umano verso il non umano, verso il totalmente altro, la disperata ricerca di un altrove per l’incapacità di accogliere il qui e ora (dove in realtà abita anche l’altrove).
Ennio sa con precisione, cioè con tecnica, che ogni arte vive della propria autonomia, ma sa anche che l’orizzonte di senso di ogni arte è nella eteronomia: dal che la politica o il suo inevitabile orizzonte.
È come se ogni arte, per Ennio, fosse comunque costretta a vivere una doppia vita: tragica e nel contempo ludica; assoluta proprio per liberare la inevitabile relatività delle possibili interpretazioni; lontanissima da ogni dove per provare la prossimità a ogni possibile sguardo; alla ricerca di sé per scoprire l’altro da sé; costretta a interrogare se stessa per offrirsi all’immanente “altro”; sempre qui e ora per un “oltre”; sempre presente perché – in fondo – logica del rifiuto proprio del presente; orgogliosa sino a essere disposta all’umiltà del lavoro artigianale; tecnicamente aggiornatissima con l’intento per nulla nascosto – anzi ludicamente sempre esposto – di metterla in scacco, la tecnica, di non cedere alle sue lusinghe, di non lasciarsi catturare dalla sempre latente idolatria che la tecnica usa come seduzione. In fondo c’è un unico modo di governare la tecnica: guardarla negli occhi mentre la si usa nella sua presunzione massima, nella sua pulsione all’innovazione.
In sintesi per Ennio l’arte è sostanzialmente tecnica (come per altro per gli antichi) e la tecnica è comunque mezzo per un fine, cioè procedura per altro e questo per altro è la conoscenza e non l’effetto, la conoscenza anche delle stesse procedure.
I lavori di Ennio (così dovrebbero essere chiamati, in tutta la loro umilissima nobiltà) mi costringono a una serie di riflessioni.
La prima è legata al fatto che guardandoli non sono affatto spinto a individuare una collocazione storico-critica.
Non sento il bisogno di cercare a che cosa assomigliano, se sono nate prima o dopo altre opere, i manifesti, le intenzioni nei tempi e i tempi nelle intenzioni, l’appartenenza a movimenti, “ismi”, processi… o le logiche compositive o le retoriche formali.
Forse anche Ennio, sapendo fin troppo bene che non c’è arte senza storia dell’arte, ha cercato e cerca in qualche modo di fuggire da questo dettato hegeliano?
Certo tutto il modernismo modernista, tutte le avanguardie avanguardista, in fondo tutta l’arte contemporanea ci ha provato, senza però riuscirci. §Anzi questo è diventato persino l’ossessione o lo stesso delirio del Contemporaneo.
Ennio ci prova in modo un po’ inusuale, anche se la storia e la critica d’arte possono farci riconoscere alcune analogie in alcune “mosse” diversive Dada, nel tentativo di includere l’arte nel vissuto del Bauhaus, nella volontà di mettere al servizio dell’arte la scienza dei vari movimenti Optical e ovviamente del gruppo Enne, nell’atteggiamento di sprezzatura dei gruppi-non gruppi Situazionisti, Fluxus o Radical. In fondo chi può permettersi di non avere la propria genealogia? Solo che questa non può pretendere da sola di dare ragione del fenomeno.
Perché quindi inusuale? Perché ha insistito sui bordi in cui le arti si ibridano o su territori in cui possono nascere nuovi fenomeni che chiamiamo poi artistici e che invece Ennio vorrebbe fossero semplicemente fenomeni.
Ennio non ha, come non ho io, l’idolatria dell’arte, nemmeno della presunta umanizzazione che pretende presuntuosamente di portare con sé.
Forse, prima di esaltare l’umanità o di farci esaltare dall’umanità, dovremmo cercare di comprendere la stessa condizione di finitudine dell’uomo, la sua nobilissima miseria, il suo essere sostanzialmente un animale che elabora percezioni come pensiero e pensiero come percezioni, uno straordinario cacciatore.
Tutto in Ennio viene ricondotto alle dinamiche della percezione come luogo di incubazione del pensiero.
L’uomo è ciò che è perché faber e perché ludens, perche insegue la necessità e perché può – meglio deve – fregarsene per essere quello che è.
È qui che la storia, e con lei la stessa storia dell’arte, non può più esibire il proprio dominio, dato che l’interrogazione principale non è dove ci porta lo Spirito del mondo, ma come funzioniamo, come siamo fatti e non perché siamo stati fatti.
Credo che in fondo Ennio si scontri continuamente contro una delle più grandi contraddizioni del nostro tempo: come è possibile che esistano due verità, quella della Scienza (scritta anche questa con la maiuscola) e quella dell’Arte?
Come è possibile che si diano due metafisiche rivali?
Per risolvere questa contraddizione non è sufficiente “piegare” la scienza all’arte, o motivare l’arte con la scienza, percorso comunque fatto da Ennio (e non solo).
Percorso che nulla risolve, altrimenti come giustificare l’inquietudine che accompagna il pensiero e le pratiche di Ennio?
Forse sa, o semplicemente avverte, che la questione non è portare l’una all’altra, ma superare la loro differenza, cogliendo il modo in cui il pensiero fa e il fare pensa; cercando di rivedere quella differenza che si è instaurata sin dagli albori della nostra cultura tra la techne come abilità operativa di chi realizza qualcosa e l’episteme come studio e conoscenza dei principi generali, interrogando quindi le arti e non accettando la seduzione dell’Arte.
C’è quindi una contrapposizione tra le arti e l’Arte, così come c’è una strana conflittualità tra la decorazione e l’Arte e non certo tra la decorazione e le arti.
Le arti rispondono alla necessità, sono ciò che permette all’uomo di sopravvivere e quindi di essere ciò che è, ne sono una estensione, delle protesi, e nel contempo incarnano la stessa condizione umana.
L’Arte, secondo il dettato kantiano, si presenta, nella seconda metà del Settecento, come somma superfluità nel momento stesso non è più possibile decidere se è la tecnica che salva l’uomo o se è l’uomo che la domina, se essa è un mezzo per un fine oppure se essa stessa è diventata il fine.
Essa si vuole autonoma e quindi implicitamente dis-umana. Ennio prova a stare dalla parte delle arti (e quindi delle tecniche), anche se tutti, lui compreso, ci ritroviamo sedotti, ipnotizzati, persino drogati dall’Arte.
E per la decorazione? Quale la conflittualità con l’Arte?
La decorazione incarna la tecnica ed è essa stessa esercizio tecnico.
Là dove essa si separa dall’umanità (ancora nella seconda metà del Settecento), la decorazione, risulta semplicemente ingenua e primitiva.
L’Arte diventa nemica della decorazione anche se alla fine del suo percorso, cioè nella assoluta astrazione del quadro bianco su fondo bianco, è costretta a riguardarsi come decorazione mancata, inautentica. Il decoro era il modo in cui le civiltà si facevano, nella loro differenza, mondo.
L’universalità dell’Arte inghiotte ogni diversità stimolando continuamente il nuovo, cioè le stesse differenze, e si pone al di là dei decori, degli stili di vita, e quindi delle stesse civiltà.
Ennio si ritrova indeciso, come molti di noi, tra l’utlità delle arti e la superfluità sacrale dell’Arte.
Forse la soluzione, che spesso Ennio coglie nelle sue pratiche di tipo percettologico e quindi cognitiviste, sta nel comprendere che nulla è per l’uomo utile quanto l’inutilità.
Non per ragioni estetiche e, nemmeno, per quelle etiche, ma per il semplice fatto che la potenza del pensare sta nel saper evocare ciò che non c’è e ciò che non c’è è essenzialmente in una condizione di inutilità: il pensare ha quindi la capacità di rendere l’inutile utile, la capacità di rendere presente ciò che non è presente.
Non è assolutamente vero che la scienza nasce per l’utile, la stessa matematica opera costantemente nella superfluità. Anche la scienza nasce dalla superfluità e quindi non si dà distinzione tra Arte e Scienza. Non si possono dare due metafisiche rivali.
Su questo terreno si muove Ennio.
Mentre stendevo queste note (forse divagazioni) per il catalogo dei lavori e delle pratiche di Ennio mi si presentavano in modo del tutto casuale, e in forma quasi ossessiva, due immagini: quella di un quadro di Paul Landon del 1799 che raffigura Dedalo che aiuta Icaro a prendere il volo, ambedue con le loro bravi ali lavorate con la cera, ben piantate sulla schiena, e quella di un archivista allampanato, con addosso un grande grembiule nero, toppe nei gomiti, capelli bianchi e degli strani occhiali con una montatura di un colore assolutamente improbabile. Per giorni ho continuato a chiedermi cosa avessero a che fare con quello che stavo scrivendo. Adesso, in chiusura, ho capito.
Dedalo emerge da una mia antica sorpresa, di molto tempo fa, legata alla lettura del Menone di Platone.
Socrate utilizza la figura di Dedalo per ragionare con l’amico Menone sulla differenza tra la giusta opinione e la scienza.
Ciò che stupisce Menone è proprio il fatto che l’una e l’altra siano divise.
Dobbiamo tener presente che per gli antichi Greci l’opinione, la doxa, indica una conoscenza che non coincide con l’episteme, che può esserci una opinione giusta e vera alla quale si contrappone un’opinione falsa, e che a dirimere sulla verità o sulla falsità non è comunque l’episteme (anche se come detto essa è studio e conoscenza dei principi generali), ma la sapienza, cioè la sophia come espressione della ragione capace di una unità complessiva concessa dalla theoria.
Va anche ricordato che theoria vale per contemplazione come facoltà a disposizione dell’Intelletto per pervenire alla conoscenza della verità.
Per Aristotele la conoscenza dei principi primi della realtà è da considerarsi una vera e propria contemplazione.
Anche per questo distingue le scienze teoretiche (che studiano i principi primi) da quelle pratiche (che si occupano dell’agire) da quelle poietiche (le scienze della produzione).
Ebbene di fronte allo stupore di Menone per la separazione tra opinione (doxa) e scienza (episteme) Socrate evoca le statue di Dedalo.
Si sa, Dedalo è il grande costruttore di artifici e di architetture, capace di grandi inganni, ma anche di prevenire gli inganni o di risolvere con astuzia le possibili trappole.
È lui che insegna ad Arianna come uscire dal labirinto per fuggire dalla furia del Minotauro. Nel mondo antico era sempre ricordato per le sue statue così vive da sembrare in movimento o fatte con una tecnica tale da poter effettivamente muoversi.
Ecco che allora Socrate fa la seguente considerazione: le statue, se non sono legate, prendono la fuga e se la svignano, se invece sono legate, restano ferme.
Di fronte allo stupore di Menone, così Socrate continua: “Possedere una delle statue di Dedalo che sia slegata non è di grande valore, è come possedere uno schiavo che fugge – infatti non se ne sta fermo –; se invece è legata vale molto: perché queste opere sono molto belle.
A proposito di cosa sto dicendo questo? A proposito delle opinioni vere. Infatti anche le opinioni vere per tutto il tempo in cui restano salde sono un bel tesoro e realizzano ogni bene. Ma esse non vogliono rimanere salde per molto tempo, ma fuggono dall’anima dell’uomo, per cui non hanno grande valore, fin tanto che non siano legate con un ragionamento sulla causa.
Questo, amico mio, è reminiscenza … Quando siano legate, diventano dapprima scienza e poi stabili: ed è per questo che la scienza è più apprezzata di una giusta opinione, e la giusta opinione sta nella connessione”.
Leggendo queste pagine, allora, mi sono ritrovato a pensare che il Contemporaneo (cioè il nostro tempo) ha lasciato che le statue siano libere (non valuto ora se ciò sia un bene o un male) e queste, non più schiave, (non più legate alla utilità e alla necessità) hanno urlato al mondo siamo l’Arte, non dipendiamo più dalla giusta opinione, dall’episteme e nemmeno dalla tecnica, e per quanto riguarda la poetica essa non deve più preoccuparsi del modo in cui le cose sono fatte, ma del valore presunto – che più assoluto non si può – di colui che fa la cosa, del suo stile (…e non più quello di una civiltà).
Le statue senza più legami mimano i soggetti (gli artisti, ma anche gli storici e i critici) che finalmente possono simulare la loro stessa immaginifica libertà.
È indicativo (sintomatico) il fatto che Platone, così attento alla funzione della meraviglia, usi il riferimento alle statue di Dedalo (di certo, nell’immaginario antico, meravigliose) non par palare delle arti e quindi delle tecniche, ma per parlare di una palese contraddizione tra i saperi certi e i saperi incerti, tra l’opinione e la scienza.
Si tratta evidentemente di una metafora che a sua volta è inevitabilmente figlia di qualcosa di indefinito che appartiene al linguaggio e alla necessità di comunicare attraverso analogie.
Ma ciò che preme in Platone è il problema gnoseologico e non certo quello artistico-estetico, e questa metafora si conclude con una parola: connessione. È la connessione (si ricordi che logos significa legare, connettere, tenere assieme) tra saper pensare e saper fare, tra intuire e decidere, tra riflettere e dare forma, tra l’incerto e il certo, l’oggetto del dialogo.
Ciò che Ennio cerca di fare è proprio interrogare le connessioni in particolare quella tra percepire e pensare e, quindi, tra spettatore e autore, ma di certo non per l’idolatria della autorialità (per altro tutta disperatamente Moderna e Contemporanea). Ennio è un link, un connettore.
E questo per me ha poco a che fare con l’Arte idealisticamente intensa ed è solo marginalmente interno alle logiche delle così dette avanguardie storiche e non.
Connettere!? Ma non è esattamente ciò che rende possibile l’archivista sommo, il bibliotecario di Borges? Il mondo forse non ha a che vedere con la creazione, ma con la disposizione e, per questo, forse, Ennio indaga le disposizioni, gli scaffali, le enciclopedie, le tassonomie, l’ordine e il suo disordine, il disordine e il suo ordine? Per questo, forse, il grembiule dell’archivista è nero e senza tempo (con le toppe per rispetto dell’usura), ma i suoi occhiali sono nel tempo, nell’improbabile, sempre qui e ora, se volete, talmente alla moda da essere fuori moda, o talmente fuori moda da essere nel tempo?
Ecco allora che i sentieri di Ennio non sono stati quelli dell’Arte, se non per i tempi che pensano di redimersi con l’Arte e che quindi riconducono tutto all’Arte.
Il suo opus è il compendio che tutto connette testimoniato da questo stesso catalogo, ma che può continuare sino a quando qualcuno, comunque, lascerà la sua impronta sulla caverna (quella che precede la famosa caverna di Platone) chiedendosi: cosa produco quando penso, o cosa penso quando produco, anche se la domanda continuerà ad essere: perché c’è l’Arte, quando ci sono le molte arti?
Non io faccio l’opera, è il mondo stesso che è un “fatto” e che, per questo, non può che continuare ad essere interrogato.