INTAGLIO 5
1958-1967, collage di cartone pressato intagliato, cm 50x70

 
     
   
   
 


CHINE GRAFI 1>4 bozzetti preparatori
1956-1957, china nera su carta cm 25x15,5

 
     
   
 


INTAGLIO 4 - Graffito nero
1957-1967, collage di cartoncino intagliato cm 50x70

 
     
   
   
 


ACQUERELLO 1 e 2
1958, bozzetto ad acquerello e china su carta filigranata cm 16x19

 
     
   
 


INTAGLIO 6
1958-1967, collage su doppio livello di cartone pressato intagliato cm 50x70

 
     
   
   
 


INTAGLIO 29 – Piega fronte e retro
1968, carta da imballo su cartone;
sul retro è incollata una prima prova di listati a tempera simulanti una piegatura con note dell’autore e etichette di spedizione; ogni tavola della serie Intagli è numerata progressivamente. cm 50x70x1,5

 
     
   
 


INTAGLIO 34 - Stringhe
1971, fettucce di nastro e retino stampato, con fronte e retro analoghi cm 70x50

 
     
   
 


INTAGLIO 9 - NCA oro
1960-1965, 12 elementi seriali di lamine per doratura montati su cartoncino rosso cm 70x50

 
     
   
 


bozzetti di studio, cm 20x22 ogni tavola

 
     
   
 


GRAFFITO SPECCHIATO 1>3
1957, serie di vetri i specchiati con intervento di graffitatura dell’argento
cm 21,5x21,x3 cm 26x2x6,5 cm 24x24x5,5

 
     
   
 


INTAGLIO 11 - Intelaiatura a fasce
1960-1967, collage di cartoncini accoppiati e sagomati
cm 5x70

 
     
   
 


MODULAZIONE SPAZIALE ALU
1958, profili e sfera di alluminio con inserti neri di legno cm 30x4x10

 
     
     
     
     
     
   

 
     
     
 


 

Chiara Costa
Intagli. Strumenti minimi



Gli Intagli di Ennio Ludovico Chiggio sono un’opera in serie iniziata nel 1957, costituita da cinquanta tavole, risultanti dal recupero, dal restauro e dalla rielaborazione dei fogli disegnati a inchiostro o pastello, delle tempere e degli acquerelli, dei monocromi polimaterici, delle Tensioni in cartoncino tagliato, dei collage realizzati in un arco temporale di circa cinquant’anni, ma recentemente montati su pannelli analoghi per dimensioni e struttura.
La natura procedurale di questi oggetti organizzati in serie – termini appartenenti al vocabolario dei gruppi di Arte programmata – emerge in particolare negli Intagli in cui l’artista colloca nel verso la forma iniziale di un pensiero che dapprima sviluppa su supporti di dimensioni ridotte, poi elabora per anni e infine trova definizione nel recto.
Ennio Chiggio invita l’interlocutore ad approcciarsi all’opera “leggendo fronte-retro” ciascuna tavola, salvo stupirlo poi con un abile hýsteron próteron, grazie a cui esibisce l’inizio del processo, celandolo nel lato seguente dell’Intaglio.
Un atteggiamento in linea con la sua apertura didattica e formazione retorica, nutrita dall’amore per l’uso nel contempo devoto e ludico della langue, le cui regole intende applicare a quanto realizza, costringendo chi fruisca degli Intagli a seguirne la numerazione, qualora voglia coglierne il senso.
Tale produzione si presta, dunque, all’analisi degli aspetti reconditi, dei percorsi nascosti oltre le note scelte programmatiche, innanzitutto rivelando la peculiare condizione di chi si riconobbe con difficoltà nell’immagine comunemente accettata dell’artista, al punto da considerarsi dapprima un dilettante, poi da dedicarsi all’esperienza collettiva dei gruppi e infine da identificarsi nel “fare ricerca e non arte”; quindi svelando un processo creativo continuo a cui Chiggio solo di recente ha attribuito il titolo di Intagli e la dignità d’opera.
Maturata, pertanto, la sistemazione di un’attività sinora poco esplorata, ma assidua ed estesa, parzialmente documentata in precedenza e sfuggita alla distruzione perché riposta in cassetti, egli affida agli Intagli il privilegio di rappresentare lo sviluppo di un’identità artistica cresciuta all’ombra delle proprie indagini sperimentali sui processi percettivi e della conseguente costruzione di oggetti visivi e sonori.
Da essi emerge il suo profilo ludico e irriducibile, che ancor più strenuamente si oppone a ogni schematizzazione aprioristica e che ricerca nel materiale di scarto e nell’idea considerata fuorviante o atipica un motivo di meditazione e di ispirazione.
Per la volontà di non gettare nulla, rispondente, di fatto, alla duplice esigenza del creativo e del catalogatore, continuò a conservare quanto realizzato, consuetudine ribadita, inoltre, dalla prassi di recuperare fogli e cartoncini destinati al macero e persino carte speciali della tipografia e tessuti o superfici dalla particolare texture.
Infatti, successivamente agli Intagli del 1957, ancora debitori dell’Informale, ma già caratterizzati dall’interesse per i rapporti critici tra figura e sfondo (Intaglio n. 1; Intaglio n. 2), si osserva un’attenzione crescente ai patterns visivi, di cui, oltre a rilevare le potenzialità in termini di interferenza ottico-percettiva (Intaglio n. 10), esalta la tridimensionalità, sia per lo spessore effettivo e la porosità degli strati utilizzati sia per le scelte cromatiche e il gioco di luci e ombre, fattori a loro volta legati alla natura “in rilievo” di queste opere (Intaglio n. 16).
Tale “cosalità” giunge, alle soglie degli anni settanta e sino agli anni ottanta, al prelievo diretto di oggetti comuni, quali sciarpe, matite e piume colorate, scelti per la capacità di segnalare un problema, manifestandolo (Intaglio n. 37).
Apre questa nuova fase un Intaglio a righe rosse e bianche (Intaglio n. 29), che si impone in qualità di allarme sensoriale e che Ennio Chiggio considera “la prima esperienza” alternativa alla “lunga stagione del neo-gestaltismo”: “Su una carta da imballo a righe bianche e rosse … operai un piccolo slittamento all’allineamento; ciò produceva uno “stallo” percettivo.
Era imperdonabile … l’occhio andava sempre a focalizzarsi proprio su quel segmento, come in attesa di un altro segno riparatore o correttivo”.
Questi lavori, dunque, non solo rappresentano una parte fondamentale della sua produzione artistica, ma contribuiscono a chiarire alcuni passaggi critici della sua attività più nota, senza perdere la dignità di opera autonoma.
Gli Intagli testimoniano, infatti, quel movimento tellurico che, seppur lungamente trascurato da Chiggio, tuttavia ne condizionò le scelte in momenti determinanti per sé e per i gruppi a cui partecipò.
A maggior ragione è perciò indicativo sottolineare la presenza, tra i suoi Intagli più recenti, di una tavola dominata da un’impronta digitale (Intaglio n. 44), quasi una firma personale che assume il sapore della conquista di una nuova consapevolezza individuale.

Chiara Costa: Gli Intagli…

Ennio Chiggio: Le carte le tenevo nel cassetto, le riprendevo in vari momenti nel 1976, nel 1974, nel 1970, nel 1975: fogli tre o quattro volte ripresi, ampliati e poi, fatti i cartoni, incollati, quindi abbandonati e ripresi di nuovo e avanti così; e poi questa fase finale in cui ho tentato di rimettere in ordine tutto.
Mi è venuto in mente l’altro giorno un pensiero abbastanza strano, quello della Wunderkammer. In realtà questa mia vita la considero come una raccolta individuale, analoga a quella che facevano i grandi raccoglitori precedenti alla tassonomia linneana, che raccoglievano in alcune Kunstkammer le migliori opere del gotico e via dicendo, che ostentavano pubblicamente, dall’altra invece in camere di curiosità molto alchemiche, molto intime, raccoglievano con tassonomie gratuite cose, accostando mosche bianche, coccodrilli e fenicotteri a un dente di Narvalo, alla Borges. Quest’idea per cui in realtà anche un artista contemporaneo, molto attento, come mi sento io, alla Gestalt e all’iconologia, si presti a continuare un’esperienza antica e recondita com’era quella di raccogliere le meraviglie e di collocarle paratatticamente, una di fianco all’altra, evitando la sistematicità, negandola momentaneamente per aprire a un fantastico relazionale, non irrazionale, nel senso che le cose assumono valori, come le parole a seconda dei costrutti messi in atto, creano poesia, prosa o didattica. Puoi essere apodittico o descrittivo, ci sono “mari” di maniere con cui puoi connettere tra loro le parti soggettive, le parti predicative della lingua, tanto da creare intere cifre distinguibili che formano lo stile dei letterati, la letteratura, la poesia, l’accidente. In arte questa teoria della connessione è stata poco usata; è stata usata da tutti gli iconologisti di scuola warburghiana, da Gombrich in particolare e da altri, però non è stata mai resa operativa se non dai concettuali. I concettuali sono l’unico gruppo di artisti abbastanza organizzato e molto preparato culturalmente che organizzi il proprio modo di vedere in questi termini. Ho capito improvvisamente che stavo facendo una specie di Wunderkammer che leggevo come una Wunderland, ma appena dico la parola Wunderland ecco che Alice entra in scena. Alice si meraviglia con tutti i suoi paradossi logici, Alice nel Paese delle meraviglie è un falso libro per bambini: in realtà tutti i nonsense in cui Alice cade, persino l’attraversamento dello specchio altro non sono che un approccio alla logica, una nuova metafisica dell’oltre. Ho pensato che dentro alla mia testa stesse frullando un mondo di questo genere. Mi comporto e faccio comportare i miei visitatori e i miei interlocutori come se fossero dei soggetti in una Wunderland, come se attraversassero con me lo specchio; specchi che molto spesso sono irreversibili perché, producendo l’arte un processo cognitivo, non si è più quelli di prima. Questa esperienza cinesica introduce a territori leggermente inclinati, con prospettive che sono sempre sottilmente aberrate, improvvisamente barocche, con camere distorte come quelle che facevamo noi come Gruppo N – ma anche quelle di Gianni Colombo del Gruppo T – e che tuttavia nel mio caso si presentano in maniera un po’ diversa: c’è una soluzione finale da attraversare e c’è una “vertenza” che pongo in essere. Attenzione, non avevo tutte queste coscienze al tempo, mi sono venute in questi giorni, quando ho cominciato a pensare che dovevo raddensare tutto, chiudere il chiasmo tra il bozzetto e l’eseguito, tra quello che era successo prima e quello che era successo poi, operando in questa continuità che trasversalmente attraversa cinquant’anni: ora mi è chiaro il disegno!
In tal senso tutto quello che poi si è detto con te mi ha aiutato, provocando una serie di aspettative che tu non attendevi e permettendomi di recuperare parti di coscienza e avanzare. È stato merito tuo e di Francalanci che mi diceva di mettere le cose segrete in questa mostra; ti ho chiamato a testimone per aiutarmi a uscire da questa fase di dubbio, per scegliere se fare o non fare tutto questo. Tu hai detto che si doveva fare e Francalanci ha rincarato, affermando che era fuor di dubbio, perché francamente – devo ammetterlo – questa è la maniera con cui dimostro che non c’è soluzione di continuità tra i primi graffiti e le ultime opere ludiche…

C.C.: È un processo…

E.C.: È un processo in cui si vede chiaramente che sei sempre tu, cioè fai finta di esser diverso, ma in realtà si vede “la tua zampa”, che tu prenda una sciarpa e la metta su una fotocopiatrice e poi la chiami la Vergine della conchiglia oppure che tu prenda gli Intagli e per l’ennesima volta ci lavori. E poi ti accorgi che stai intagliando ancora adesso. Infatti ho ripreso i vecchi vetri: il primo l’ho fatto nel 1957, ho ancora i pezzi originali in studio di sotto, solo che adesso li voglio perfezionare e allora li ricostruisco e mi dico: “Sai che è bellissimo quello che avevi fatto allora, ma non puoi ripresentare i vetri vecchi: devi mostrare le texture di oggi”. Oggi con la macchina laser riesco a calibrare tutto con esattezza, eppure c’è un “prima”, una fase che non definirei irrazionale, ma dove non ricerco l’ordine, quanto piuttosto una “caduta”. Una volta non portavo questi lavori alle mostre, non avevo il coraggio, non uscivano di casa: portavo invece le più note serigrafie. Ora ho il coraggio, adesso esco e dico: “Adesso i vetri li metto storti”; perché credo che sia interessante rivalutare l’atteggiamento rispetto alle superfici, rispetto al processo artistico. Rifletto costantemente su una modalità del comportamento artistico e tendo a evitare di produrre l’opera: l’opera è irrilevante, ma il mio atteggiamento rispetto alla materia e a quello che mi sta di fronte è rilevante, è quello che mi impegna totalmente. Questa credo sia la ragione per cui sono abbastanza “in-sofferente” in questo periodo.

C.C.: La maturazione di una nuova consapevolezza?

E.C.: Sì; la perfezione mi dà noia…

C.C.: Perché non lascia spazio a dinamiche di sviluppo…

E.C.: Perché è assoluta e io non so cosa farmene dell’assoluto; è teistica…

C.C.: È dogmatica…

E.C.: È dogmatica! Cosa me ne faccio di un Dio che non posso interrogare? Lo devo interrogare tutti i giorni, ma lui non ha tempo, ti dice vai avanti, arrangiati, fai le tue cose, impicciati, ecco, impicciati. In passato mi sono illuso di creare stabilità nell’instabile, ma non era così ovvio e facile! Questa è l’avventura in cui ti sei impicciata anche tu che ascolti e ora ci tengo, voglio portare avanti l’idea della Wunderkammer, è proprio quella giusta, perché entri nella mostra e non accedi subito alle mie opere finite, ma accedi a questa “macchina” progettuale. La prima sala sarà una Wunderland, una Wunderkammer in cui mi racconto in un percorso indifferente alla qualità: spero ci sia anche la qualità, ma a questa sono indifferente, non è la cifra che voglio esporre. Il fatto rilevante è che ci sia serialità – Benjamin – finalmente! Le carte saranno tutte esposte una sopra l’altra, come si esponeva nelle pinacoteche, come fu nell’Ottocento, come furono le prime grandi esposizioni. È un gioco: giochiamo a fare il Louvre! O navigate insieme a me nel flusso a bracciate e soffrite come me, oppure vi sedete sulla riva e state fermi. Tu testimoni di questa hesitation, ma ora il chiasmo è chiuso, non c’è più separatezza tra quello che pensavo e nascondevo nei miei cassetti, e quello che volevo far apparire. Ora il cerchio è chiuso: sul fronte gli Intagli che ho realizzato dopo dieci anni e sul retro le carte incollate. Le ultime carte le ho incollate ieri sera.

C.C.: E le Modulazioni spaziali?

E.C.: Le guardavo in questi giorni: all’inizio le facevo come forme di sensibilità della luce, perché rincorrevo le rigature luminose, ma quei segni di china, in realtà, sono delle incisioni vere e proprie. Quando delimito con un segno di china, “taglio” queste superfici, ma non ci arrivo subito. Intanto tento alcuni escamotages e provo a fare “tagli” con profili di alluminio, ma non mi piacciono, perché sento di scivolare nella scultura e io non voglio fare scultura, infatti faccio solo questa prova e poi la abbandono (indica una scultura in alluminio sul tavolo, n.d.r.): questo è solo il negativo, sono solo i segni di china, ma manca il pieno. In realtà quello che mi interessa sempre – e sto forse facendo autoanalisi a voce alta – è che le forme rimangano parti; quando i pezzi sono composti gestalticamente, allora vengo spinto in una “ulteriorità”. Quando intervieni con decisione nello spazio delle vaghe ombre – ecco, la caverna platonica – e delimiti e tagli, un po’ come la forza della mano dipinta, dell’atto magico sulla roccia nella grotta di Lascaux o come la violenza del taglio di Fontana, che vuole assolutamente superare la tela – una violenza rappresentata nella famosa fotografia di Mulas – intagliare in realtà diviene una maniera chirurgica di riconnettere il separato, di riproporre il gesto in coazione, di ricomporre le parti staccate di una fragilità psicologica schizzata.

C.C.: Un tentativo di sintesi?

E.C.: Uso “arti-fici” per riconnettere: la sintesi prevede che io faccia sparire la sutura, la cesura tra le parti, ma io invece non la faccio sparire, non c’è sintesi, ma perdurante dicotomia. Deve rimanere il processo, è lì, si vede; non giunto del tutto le parti, anzi c’è questa riga che unisce ancora e c’è una paratassi di parti che si attaccano, che non riescono mai tra loro a mettersi d’accordo in una sintassi generale, a meno che tu non ti costringa a “ri-percorrere” tutti i pezzi. Solo quando hai percorso tutti i “frammenti” che la compongono, allora hai fatto una sintassi, hai messo insieme parti staccate, che altrimenti non vorrebbero dir nulla, poiché rimarrebbero solo pezzi di legno, niente di più. Ma anche nella lingua: le parole, da sole, non sono nulla, lo diceva de Saussure, la langue è tutt’altra cosa!

C.C.: Anche gli Intagli, infine, sono parti di un percorso che va seguito nella sua interezza per essere compreso…

E.C.: Con questo possiamo dire di aver detto la verità e non ne parliamo più: adesso possiamo abbandonarli, adesso sono lacerti, sono le ossa, sono gli scarti, la carne è stata tutta consumata.

C.C.: Dunque gli Intagli non subiranno ulteriori evoluzioni…

E.C.: No, penso di no. Anche perché, adesso che me ne sono liberato, non ho più voglia di dire su loro altre cose. Poi, con il montaggio su queste cornici, anche il mio desiderio di tassonomia è risolto. La lectio è fatta, l’elocutio è avvenuta; basta ora, il rhetor va a dormire, è stanco. Oh! Quanto ho rotto l’anima al mondo con questa storia! Eppure fare Arte significa far questo, mettere insieme pezzi disuniti, cercando di seguire le quattro regole basilari della retorica, anche se mi rendo sempre più conto che questa forma d’arte ostensiva molti non la conoscono o non se ne occupano. In me si “comprende”, perché ho fatto la scuola dai gesuiti, ora sì, si capisce.

C.C.: Movere delectando…

E.C.: Proprio, sì! Movere delectando è quello che mi hanno insegnato i gesuiti in collegio, all’Antonianum qui a Padova, dove ho imparato cinema, dove ho fatto i miei anni di rugby con il Petrarca, dove ho fatto lo scavezzacollo. Devi pensare che erano gli anni in cui giocavo con lo specchietto con una bambina che stava nel collegio femminile Dimesse: quella bambina l’ho incontrata dopo trent’anni ed è stata la mia compagna per un lungo periodo. Non ci conoscevamo: andando a scuola assieme e, frequentando lo stesso istituto, un giorno ci siamo raccontati di questi “amori specchiati”. E il bello è che, a due passi da lì, c’era anche lo studio di Travaglia, dove i componenti del Gruppo N andavano a lezione, e anche via Marin, via Acquette e Prato della Valle e via discorrendo: un piccolo mondo antico.

C.C.: Alcuni Intagli hanno una storia…

E.C.: A me piacciono molto quelli aperti, con dei tagli interni decisi, con delle graffiture forti. Poi c’è stata anche una parentesi “alla Klee”, che ho abbandonato subito, ma l’altro giorno mi è venuta voglia di riprenderla. Avevo due vecchi acquerelli e mi chiedevo perché Klee facesse queste cose. Mi piaceva immaginare di prendere le sue linee e trarle fuori per portarle nello spazio, perché deve essere magnifico pensare a un Klee in terza dimensione, cosa tentata in parte in un’opera. Studiando il Bauhaus da vicino, notai che avevano tentato di fare una Sonata di Bach articolata con una scultura, ma ora penso: “Mi metto a fare ancora queste cose? Falle fare ai ragazzi!”. Se avessi degli studenti, le farei fare a loro. In effetti ho scoperto più tardi di aver elogiato Albers, in un saggio, per la maniera in cui era riuscito a far scoprire ai suoi studenti alcune cose interessantissime sulla piega della carta. Che bello saper usare la carta: saperla muovere, piegare, sfruttando le tre dimensioni. Purtroppo ho scoperto ciò tardi, perché prima guardavo Albers come gli altri, lo seguivo sulle “vicende” del colore e non per le ricerche plastiche, come didatta: è un genio della didattica, ma l’ho capito solo ultimamente. Se avessi tempo, andrei a studiare i suoi archivi in America. Un uomo poco conosciuto e invece rilevantissimo. E poi c’è stato il periodo veneziano con Alberta: eravamo in una casa vuota, senza oggetti d’Arte e ho usato le puntine, le piume. Non c’era niente lì, ma una cartoleria sotto casa, la cartoleria Seguso, aveva dismesso tutto e Alberta aveva portato dei campioni, scatole e scatole di puntine, squadrette di legno di tutti i tipi e persino il piumino per spolverare che mi rompeva l’anima: cosa si poteva fare con un piumino con tutte le penne? E allora, gira e rigira, è arrivata la soluzione ed è nata la Trilogia Veneziana.

C.C.: Questo rientra, a sua volta, nel voler riutilizzare lo scarto…
E.C.: Sempre fatto. Questa cosa di giocare con le carte, coi pezzi. L’altro giorno Giulia – mia ex compagna d’avventure TOT – mi ha portato una statuina fatta con il pezzo di un giunto di una macchina agricola della Laverda, che io avevo utilizzato per fare un omaggio a Brancusi. Sempre da lei ho scoperto un pallottoliere bellissimo che avevo rimosso, fatto nella stessa epoca prendendo quattro angolari di ferro trovati in giro, saldati fermamente. Sfruttando i buchi già presenti, perché mai sarei riuscito a tagliare quello spessore, ho avvitato all’interno una scatola in legno e infilato delle piccole perline in legno che avevo trovato al mercato, di un colorino così delicato, da una parte marroncino chiaro e dall’altra verdino, facendo il verso all’opera straordinaria di Alberto Biasi, quella cassetta con spugnette sospese: avevo finalmente imitato spudoratamente, una cosa passionale, quella prima piccola scatola, di quando eravamo ancora un po’ tutti giovani informali.

C.C.: In che momento siamo?

E.C.: Qui siamo nel 1959 o 1960. Quando l’ho “ri-vista”, mi sono commosso, anche perché si trova ancora sopra una cassettiera trovata in una vetrina di Coin allestita a Vicenza, fatta in legno di pino con quattro zampe di leone. Io e Giulia, passando davanti la vetrina, la vedemmo e chiedemmo quando l’avrebbero dismessa e dopo un mese la comprammo. Per cui oggi si vede ancora questo “settimanale” dal legno invecchiato, con maniglie di ceramica che avevo trovato e avvitato e, sopra, questa scultura non tanto grande, ma dura, bella!
E ancora, a Vicenza, un giorno passai davanti a una vetrina di una gioielleria, che era stata colpita, in vetro armato e spesso: la stavano smontando. C’era questo vetro ancora composto, con una stella a raggiera di fratture irradiate, bellissima: era molto grande. Allora chiesi se me la vendevano: mi guardarono come se fossi pazzo, ma me la smontarono e me la portarono a casa per 150 mila lire. Quando la misi a terra e la appoggiai alla parete leggermente inclinata, andai a tagliare una rosa e la infilai nel foro, nel punto dove avevano colpito: era bellissima! La tenni per alcuni mesi. Era talmente piena di impicci, troppi, di implicazioni, di cose non dette sulla vita, che la feci fuori: l’ho fatta portare via, perché era impossibile estinguerla. Un’altra volta ancora ho fatto una macchina aerea, tutta a colori, grande come la terrazza di Arcugnano, ove abitavo: giorni e giorni a montare pezzi e pezzi. Anche i bianchi e rossi sono nati in quel momento, pezzi di legno ridipinti e riciclati. Tra l’altro ho scoperto, pochi giorni fa, di aver trasformato una vecchia cassettiera di famiglia di Giulia – che ha nella sua camera – dipingendola interamente di nero e sostituendo le maniglie con dei tubi bianchi e rossi.

C.C.: Quando?

E.C.: Erano gli anni ottanta. Quando avevo il laboratorio in collina potevo fare tutto, quasi come qui. La mia giornata allora era spesa a coltivare l’orto, rasare il prato enorme e vuoto a eccezione di sette pietre, che non si potevano mai vedere tutte contemporaneamente, perché la casa lo impediva. Grazie a questa esperienza molto lunga, mi sono informato sull’architettura e i giardini Zen, per cui alla sera godevo di questo vuoto delimitato da un quadrato di alberi tutt’intorno. Tra l’altro l’architetto, Federico Metterle, aveva sistemato la casa in una posizione fatale, producendo un taglio per cui si vedeva Villa Pasini dello Scamozzi da un lato e dall’altro i castelli di Giulietta e Romeo a Montecchio: la casa era proprio in asse e aveva due buchi per vederli, in aggiunta ero di fronte a una vallata di diciotto chilometri vuoti, a disposizione, affinché si potesse vedere tutto ciò. Non è stata una brutta esperienza! Casa molto bella, formata da due iperboli, una positiva e una negativa, la parte giorno e la parte notte: prima di abbandonarla, l’abbiamo rilevata tutta. Abbiamo girato un video e poi l’abbiamo rilevata interamente, per avere il ricordo di un luogo che chiamavo “sito iperboreo”. Questo è un passaggio di una vita di esperienze, luoghi e incontri eccezionali.

C.C.: Nessun rammarico per non aver esposto gli Intagli in precedenza o per averne perduti?

E.C.: In effetti qualcosa è andato perduto. Di tanto in tanto mi vengono in mente delle parti disperse, ma soprattutto c’è stato un periodo in cui mi stavo liberando di tutto. Ho anche avuto una bella collezione d’arte: ho ricevuto regali da Fontana, avevo un de Chirico, avevo anche tutte le cose mie e le serigrafie tirate con il Gruppo N, ma c’è stato un momento in cui volevo alleggerirmi di tutto questo. Ho distrutto tantissimi bianchi e rossi, specialmente quelli sospesi in equilibrio, i grandi volieri.

C.C.: Analoghi all’opera visibile nella mostra Alternanze dinamiche ora in corso a Firenze presso la Galleria Santo Ficara?

E.C.: Esatto! Erano giganteschi…

C.C.: Invece gli Intagli si sono salvati.

E.C.: Quasi tutti, perché stavano dentro i cassetti e lì giacevano dimenticati. È stata Alberta a ritrovarli, ma anche a casa di Giulia ho ritrovato dei piccoli pezzi miei, di cui mi ero dimenticato. Per esempio, nella casa di Arcugnano di cui parlavo prima, avevo preso un mattone e, dopo averlo levigato e lucidato solo sulle due facce, l’avevo posto su di un piedistallo, creando un gioco di parole tra querelle e quarel, il nostro termine dialettale: era divertente! Sempre in quella casa, in camera da letto, avevo posto una scala, di quelle per far ginnastica, come appendiabiti. Il soffitto era di nove metri e la scala di cinque e vi appoggiavo i vestiti sino a farla sembrare un’opera di Pistoletto, coperta di “stracci”. Lì me lo potevo permettere: ogni avventura era un’avventura strana. E magari, dopo alcuni mesi dall’aver fabbricato qualcosa, la buttavo via: insomma l’officina era lì, la sega c’era, il legno c’era, ne facevo delle altre! Ma in quei dieci anni è stato tutto così: le cose venivano prese, riciclate, fatte diventare oggetti d’arte.

Alberta Ziche: Sei più felice quando riesci a creare un’opera da un materiale riciclato…

E.C.: È vero!

C.C.: Un atteggiamento che forse rispecchia anche una posizione intellettuale…

E.C.: Hai detto bene: io il linguaggio non lo invento, lo uso fino in fondo, non faccio tabulae rasae. Per me il linguaggio è sacro: è la langue, è sulla langue che devi saper operare da buon poeta, lavorarci dentro e, se sei bravo, usi versi ottonari, altrimenti sono bravi tutti.

C.C.: Qualche volta hai provato comunque a esporre gli Intagli, eppure…

E.C.: Tre volte, tre volte ho provato. Adesso ho fatto anche quest’operazione: sono andato a ricontrollare il luogo dove dovevano andare esposti e nel retro ho attaccato le etichette. Alcune dovevano andare alla Galleria Barozzi, ma poi Barozzi decise di non esporle. Alla Galleria La Polena discussi dieci minuti con Manzoni, ma il gallerista disse di avermi chiamato per i miei oggetti e per le serigrafie e di voler esporre queste ultime. La terza volta è da Carrain alla Galleria Adelphi: lì reggo sino all’ultimo momento. Quegli Intagli erano già cinetici, ma poiché andava di moda l’Optical, non li espongo: non sapevo come esporli! Infatti l’Intaglio cinetico, dove puoi muovere i bersagli con la mano, è più potente di un’opera in cui non puoi “ri-comporre” l’asse, per quanto di maggiori dimensioni. Non potevano stare vicini e perciò, all’ultimo momento, non sapendo come attaccarli, lasciai perdere. Dunque, ci sono i quattro Intagli di Barozzi e i quattro di Carrain, ci sono i quattro de La Polena e i quattro del Premio Mestre, che furono pubblicati in catalogo, senza esser stati esposti. E infine c’è l’ultimo, un omaggio a Bonalumi, fatto un mese fa con un imballo di bolle d’aria trasparente.

C.C.: Da quarantanove a cinquanta Intagli, dunque, e non ce ne saranno altri?

E.C.: Cinquanta e non ce ne saranno altri: questo sarà l’ultimo, sono stanco. Un’altra cosa, di cui si parla pochissimo, sono gli specchi graffiati, molto raffinati: uno solo si trova negli Intagli. Li avrei dovuti continuare, perché avevo forza quando li facevo. Ma sono così piccoli: prendevo dalle vetrerie delle superfici di scarto o gli specchi di prova e poi grattavo via la pellicola dal retro.

C.C.: Ritorna il problema del negativo e del positivo…

E.C.: Sì, esatto.

C.C.: Siamo alla fine degli anni Cinquanta?

E.C.: Nel 1957. Risentono ancora dell’Informale…

C.C.: Sono quasi dei piccoli Intagli…

E.C.: Sì, sì.

C.C.: Esporli?

E.C.: Alcuni si sono rotti in viaggio: è un miracolo che li abbia conservati. Qui ero forte, ma non riuscivo a essere maturo. C’era chi faceva già le cose in grande, io non avevo il coraggio di essere un artista. I miei primi vetri sono troppo piccoli, nascono tutti da materiali recuperati. Sono interessanti per tutti i colpi di luce, per l’organizzazione della maglia e della cornice. In effetti sento che non c’è alcuna differenza tra questi e quelli che realizzo anni dopo: sono la stessa “minestra”, anche se gli ultimi sono più belli, mentre i primi “ansimano”. Questi aneddoti servono a capire il clima, l’atteggiamento con cui racconto questa mia terribile incapacità, per almeno dieci anni sino a quando non arriva il Gruppo, ad avere coscienza di essere un artista, una condizione che io consideravo inarrivabile.

C.C.: Adesso invece…

E.C.: Adesso no! Adesso capisco che ho trascorso tutta la vita così. Ricordo che a vent’anni volevo essere un intellettuale, ma non sapevo qual era la prassi per diventarlo. Ma non si diventa intellettuali: lo si è! C’è un momento in cui cominci a scrivere, a leggere, a parlare e lo diventi!

C.C.: E così l’artista?

E.C.: Mi si è fatto addosso, anche se non amo questa definizione. Ho sempre cercato disperatamente di nascondere le cose che gli altri esibivano! Quando facevo questi vetri, li facevo piccoli anche perché così nessuno poteva accorgersene a casa. Anche i pezzetti di carta in questi scatoloni (mostra uno scatolone ricolmo di modelli, n.d.r.) avranno quarant’anni o cinquant’anni: con quelli facevo le prime prove dei Nautilus, che sono dei poliedri sonori ruotanti nello spazio.
Grazie agli scatoloni conservati in cantina da mia figlia, ora ne ho cinque o sei pieni di ritagli di carta, su cui lavoro da quattro anni. Prima ho fatto design seriamente e non ho avuto tempo, poi ho insegnato e mi sono impegnato al massimo con gli studenti, per i quali ho sempre cercato fondi in modo da permettere loro di dimostrare in un’esposizione finale quanto fossero bravi. Quando apro questi scatoloni, mi accorgo che ci sono pezzi di carta che potrebbero diventare oggetti di una bellezza estrema, potendo farli, per esempio, in lamiera. Se sei bravo, la carta non ti tradisce mai e ti dà tutto.

C.C.: Sembra ci sia ancora molto da fare…

E.C.: In realtà ti mostro queste cose per far vedere che, se sei un “artista”, fai e non hai paura neanche del mercato, non hai pura di niente.
Col mercato non sopravvivi, però, muori! Facevo design e insegnavo per sostentarmi. Ma culturalmente sono andato sino in fondo, non ho mai smesso.
Oggi più che mai, quando apro questi scatoloni, mi rendo conto che questa è la ricerca che va fatta, se vuoi parlare del mondo.
Al mondo devi dare qualcosa e, come diceva Platone, gli artisti, finché servono, bisogna tenerli in città, perché la rendano bella, ma poi si deve cacciarli perché sono deleteri. Così, quando apro questi scatoloni, questi vasi di Pandora e vedo questi pezzi di carta, penso che dovrei farli più grandi e belli. Oppure basta così? Poi, un giorno, disordinatamente, mi piglia il furore e li faccio, con spese folli e la disperazione di tutti.

A.Z.: Non ci sarà mai ordine…

E.C.: No! Ho una personalità entropica.

C.C.: Grazie.


INTAGLIO 23 - Modulazione Spaziale
1958-1968, collage di cartoncino intagliato cm 50x70

 


INTAGLIO MASSELLO MS
1970, legno multistrato assemblato cm 30,5x71x4