Massimiliano Sabbion
ANTOLOGIA CRITICA (a cura di)
Non è un’antologia critica quella che si presenta di seguito ma una sorta di “valigia dei sogni”, una scatola duchampiana dove si condensa l’opera di una vita, una valigetta compatta con scomparti, tasche e cerniere che si aprono per lasciare trasparire ingegnose riproduzioni di forme, colori, quadri, oggetti, disegni, testi ludici…
Una valigia che ritorna poi nella itinerante Valigia Blu di AL[CHI]mas+X=0 contenitore di lavori di analisi.
Un gioco che si dipana già dal primo scritto scelto, una biografia.
È un ritratto fatto dallo stesso Ennio Chiggio di se stesso in cui traspare la scelta di un autore mai convenzionale né banale.
Perché un autore non può parlare in prima persona? Perché non lasciare a lui direttamente la parola? Nei testi che seguono si intervallano scritti su Ennio Chiggio a scritti di Ennio Ludovico Chiggio.
Il nome di battesimo, Ennio, identifica la sua persona posto nel momento della nascita ma non è scelto da lui ma da altri per conto proprio; Ennio negli anni successivi aggiunge poi un “nome d’arte”: Ludovico, scelto per l’assonanza con la parola LUDICO, relativo quindi al gioco, a un’attività di piacere per puro divertissement. Quindi Ennio GIOCA! Come e dove gioca Ludovico? Attraverso le opere, i progetti e qui, in questa sezione, per mezzo delle parole e dei pensieri su carta che si fissano nel tempo, con le sensazioni e i progetti nati negli anni.
Risulta quasi inclassificabile inquadrare l’artista con una sola etichetta ma varie sono invece le classificazioni a cui iscriverlo: è scrittore? Autore? Saggista? Critico (con se stesso molto!)? Curatore? Insegnante e maestro? Forse un po’ tutto questo ed è con lo stesso spirito che ci si appresta a “leggere” l’anima di Ennio Ludovico Chiggio come progettista e designer artista di se medesimo.
Sono nato nel 1938 sotto il segno della Vergine alle ore 10,15 del mattino alla periferia della metropoli mediterranea, Napoli.
Ho maturato una costante sensibilità artistica, dovendo sublimare altre pulsioni, fino al 1959, anno in cui ho incominciato la frequentazione sistematica di un gruppo di emarginati con cui mi sono unito nell’anonimato della sigla indefinita matematicamente Gruppo N. Le faccende di tale avventura sono note (tutto è alle stampe) al “vasto pubblico” e terminarono felicemente con qualche coda nel 1967, data della mia ultima apparizione come pulsar nel firmamento artistico.
Nel 1970, nel più profondo silenzio e isolamento, in preda a forti spinte dissociative, decido di organizzare tutto il mondo esterno secondo scansioni metriche BR, bianco-rosso, partendo dalla suddivisione base dei I-King.
Eseguo 64 esagrammi (configurazioni) BR dalla serie illimitata prevista su tali alternanze impegnandomi per cinque anni di facile e liberatorio ergolavoro, fino al 1975.
Coevamente ho letto molto, ho incontrato designer, fatto la professione (la più antica del mondo), insegnato e parlato di architettura e di progetto.
Ancora tre anni di silenzio e di perniciose ricerche (così si dice quando si perde tempo) e nel 1978 una nuova folgorazione intellettuale: il mondo è solo linguaggio, le cose e le parole si recitano in continuazione evolvendosi nella lingua, quindi arguisco che posso confezionare nuovi “zabaioni” da vecchie uova strapazzandole; la “frusta” per tale operazione è l’atteggiamento ludico e costituisco assieme ad altri attori in momentanea emigrazione un flusso tata. Non mi soffermo a spiegare cosa significa tata, tanto non vi interessa (l’ho capito!) e tra l’altro o vi sedete sulla riva o nuotate, il flusso passa!
(L. Vergine, Arte programmata e cinetica 1953-1963, l’ultima Avanguardia, Mazzotta, Milano 1963)
Ennio Chiggio è l’uomo d’oggi deflagrato dalla sua stessa cultura, come scienza come tecnica, come arte-linguaggio. Il suo orizzonte semiologico è parzializzato, reso incerto e inoperante dal suo stesso arroccarsi in una sede specializzata, che lo rafforza in una funzione e insieme lo sfunzionalizza, lo disarma di fronte alla totalità. In questo stato di fatto l’uomo viene sempre più sospinto verso una particolarizzazione linguistica che si dirà scientifica, tecnologica, artistica, politica, economica ecc.
Tutto ciò presuppone una concezione ottimistica di un progresso, stabilito da una tradizione, che fa da piano di appoggio a un budello infinito sul quale corrono gli accidenti, le contingenze, tutto e tutti in una sola direzione. Presupporre è un po’ come ignorare, dare per certo ciò che invece non solo è problematico ma in molti casi addirittura falso o inesistente, significa rifarsi a un ordine assiologico trascendente, porre un semplice evento storico come monumentale codice di legislazione per i giorni a venire: significa in ultima analisi dare poco conforto alla categoria della mutazione la quale sola fa sì che l’uomo rappresenti una cellula mobile di una totalità mobile, qualora sia garantita la libertà.
Ma laddove la nostra Civiltà si presuppone, si ipotizza e si garantisce questa libertà è immediatamente negata e l’uomo rinserrato nella sua sentina, che è luogo di costrizione e inquadramento ancorché l’ignoranza di questo stato ne favorisca un’opposta definizione.
Si potrà dunque pensare che questa condizione rappresenti una sorta di “laborinthus” dal quale l’uomo non sarà più in grado di uscire? Non esisterà dunque uno spazio linguistico riservato a una critica della civiltà che stabilisca una conoscenza non ancora ipotecata a una funzione? Critica della civiltà significa per il linguaggio sconfessarsi come medium qualora esso sparisca dietro funzioni-contenuti, per l’arte “additare quello che va in dissoluzione, anche quando si tratti di lei stessa … annunciare … che cosa ci sia da costruire, anche se ciò le può nuocere. Essa è la prima a sacrificare le proprie illusioni”.
La Nuova Tendenza di cui Chiggio ha ampiamente partecipato nell’ambito del Gruppo Enne era partita con questa ipotesi: sottoporre il linguaggio a una verifica nel suo stesso funzionare come medium cioè come conoscenza pura. Lo scopo era allora di evidenziare il processo di questo conoscere in modo radicale contro ogni estetica, dei contenuti, porgere non già un racconto artistico ma il modo linguistico per raccontare e ancor più per comprendere i propri processi di percezione. Ma si sa come certe calcificazioni siano dure a staccarsi dal corpo della Storia e come sia molto più facile riporre le cose più disparate in comode scansie pronte all’uso piuttosto che progettare nuovi sistemi di elencazione di maggiore agibilità. Per cui l’esperienza condotta in laboratorio si trasformò rapidamente in icona, e questa divenne confusamente quadro, oggetto, roba bella, decorazione, cosette.
Così catalogata cominciò a circolare in tutti quei canali che di estetiche hanno sempre traboccato: così il cerchio poteva dirsi chiuso, o forse no!
Il recupero può avvenire solo in una direzione critica qualora si denunci con sufficiente chiarezza ancora una volta la caratteristica epistemologica, in un senso quasi didattico, della Nuova Tendenza, quando si rinunzi a una integrazione balorda nell’ingenua previsione che il medium una volta tanto approfitti dei contenuti (chissà poi perché) quando sono proprio questi ultimi, nelle loro congerie di tradizione-potere-autorità, a sconfessare qualsiasi sperimentazione che a sua volta voglia sconfessarli.
Per cui non ha molto senso parlare di serialità di un metodo di conoscenza, come a nessuno verrebbe in mente di produrre in serie E mc2, anche perché se la serialità si riduce a una numerica ripetizione di un modello in tot-copie il modello è poco più o poco meno di un Colosseo e le copie tanti graziosi souvenirs. Il concetto della serialità ne implica un altro e cioè quello di meccanizzazione (lavorazione meccanica) che a sua volta determina, modifica e in parte suggerisce la forma stessa del modello.
La serialità è un concetto formale più che quantitativo. Credere il contrario è stato un altro passo falso da parte di quegli operatori che aspiravano ai fasti dell’industria per delle ipotesi artigianali.
Il laboratorio resta laboratorio: è ingenuo tirare delle quinte e trasformarlo in salotto.
A più riprese si è parlato per la Nuova Testimonianza e di tecnica e di scienza senza mai chiarire fino in fondo in quale rapporto essi stiano veramente. Questo chiarimento presupponeva e presuppone tutt’oggi una definizione preliminare di scienza e di tecnica come funzioni o disfunzioni della nostra esperienza.
Da quanto premesso poco importa se “una tecnica” possa o no “essere convertita in estetica” (poiché una conoscenza può restare tecnica e funzionante senza il sigillo estetico) ma ancor più se quella tecnica convertita o meno rappresenti realmente una conoscenza o non sia piuttosto la regolamentazione materiale di un principio di non-conoscenza. Questa è un’inchiesta fondamentale. Per chiederci se questo oggetto funziona non basta rispondere “Sì, tecnicamente funziona”, poiché in tal modo si continua a credere, approfittare e quindi costruire su grandi sistemi che ci restano assolutamente sconosciuti.
La Nuova Tendenza si è riferita alla Scienza, alle sue definizioni positive, a quella particolare definizione naturalistica e antropocentrica che ha le sue origini nel Rinascimento e le ultime ipotesi nelle filosofie empiriche del Novecento (neo-empirismo, neo-positivismo ecc.).
Ma questo approccio è avvenuto in modo acritico, senza cioè che queste esperienze si inserissero a disputare fattivamente sui principi del fare scientifico.
Una tale operazione era ed è necessaria proprio per la fondazione di una poetica che si proponga, come si è sempre affermato, totalizzante e sincretistica, poggiata su dei principi che siano utile binario non solo a una particolare disciplina ma bensì riferimento di qualsivoglia componente temporale della nostra esperienza.
Il rapporto oggetto-soggetto non può trascurare il confronto primario col metodo del funzionamento cioè del soggetto nella sua perfetta integrazione all’oggetto.
D’altra parte bisogna anche precisare come questo confronto non sia avvenuto perché è mancato il tempo materiale, di sperimentazione e di riflessione critica sui dati raccolti, onde poter sfuggire alla cattura consumistica dell’industria culturale.
Da questo premesso si rileva che questi oggetti di Chiggio non possono e non devono essere letti in una qualificazione culturale, stabilendo rapidi confronti tra poetiche e poetiche, ma in senso epochizzato, sospeso, come esperimentazioni visuali che cercano di deculturalizzare il soggetto di renderlo in qualche modo sprovvisto dei manuali di consultazione sul Bello, per un approach più concreto che funzioni a livello di test psicologico. Chi usa questi oggetti viene visivamente indotto a rendersi conto di un modo percettivo che gli appartiene e che egli prima di ora era incapace di individuare e quindi sfruttare a un fine conoscitivo.
La serie degli oggetti identifica una serie di problemi formali-metodologici: l’individuo scopre la struttura dell’oggetto ma al contempo la struttura del proprio comportamento, né più né meno come potrebbe accadere per le “tavole di Rorschach” nelle tecniche proiettive della psicodiagnostica.
Qualcuno potrebbe obiettare come in questa sede ci si occupi di test psicologici e di rivelatori comportamentistici: ebbene poiché non direttamente interessati alla salvazione delle estetiche noi rispondiamo che una tale operazione ci interessa a più livelli, essendo la vita quotidiana ampiamente infiorata di questi segnali rivelatori, che del resto i trattatisti del Bello si sono sempre rifiutati di considerare, non dico Arte, ma semplice linguaggio.
È a questo livello che si deve cercare un recupero di queste esperienze che tentano con insistenza di aprire un varco tra i grossi muri dell’Accademia, la quale cambia maschera ma non la reale identità.
Chi vuole vedere in queste realizzazioni un fenomeno di moda lo faccia pure visto e considerato che al di là di questa sembra esserci il Mistero ed esso soltanto.
In riferimento più dettagliato dell’opera del Chiggio possiamo rilevare la consapevolezza di una situazione per molti versi così complessa e il suo tentativo di uscirne tramite una personale valutazione del fenomeno che lo ha visto tra i protagonisti.Chiaramente egli continua a condurre la sua ricerca a livello di laboratorio, in concomitanza coi suoi interessi rivolti alla grafica nei suoi molteplici aspetti e alla ricerca sperimentale di tonologia, facendo egli parte del Gruppo NPS (Studio di Fonologia musicale di Padova, composto da Rampazzi, Marega, Alfonsi e Chiggio stesso). Interessi come si vede, decisamente omogenei e paralleli alla sperimentazione di ordine visivo.
Le ricerche visuali del Chiggio partono, come per la quasi totalità degli operatori di Nuova Tendenza, da un’opposizione metodologica alle poetiche informali e neo-figurative, complementare all’assunzione invece di alcuni postulati propri delle correnti costruttive: revisione critica quindi e aggiornamento in ordine alle mutate problematiche, anche in senso strettamente tecnologico (all’incontro con nuove materie sintetiche e nuovi prodotti resi disponibili dalla serrata produzione industriale) cercando per qualche verso di sfrondare certi temi delle avanguardie storiche del loro ricorrente utopismo ideologizzante: così da Morris a Van de Velde, ai Werkbunds, alla Bauhaus, a Ulm, con riferimento al Costruttivismo russo (soprattutto Tatlin e i fratelli Gabo) tutte le esperienze vengono qui raccolte per un esaurimento di un determinato precedente storico: alcune ipotesi vengono insistite, altre decisamente abbandonate, come anacronistiche o semplicemente infondate.
Le prime esperienze quindi si riferiscono a una pratica di ordine neo-plastico, all’interno della quale si può però notare il tentativo di superamento di una problematica euclidea a favore di un’impaginazione tensiva sempre in termini bidimensionali. Il neo-plasticismo è superato come concetto e come realtà nella forma del movimento che già in alcune produzioni del 1959 comincia a rendersi avvertito, come fattore di determinazione formale e di molteplice lettura: si vedano Tensione interna 1-2 e Tensioni multiple del 1959.
In queste esemplificazioni il movimento è dato soprattutto da una variazione formale, positivo-negativo, che stabilisce i punti di incidenza tra superficie e superficie e il reciproco disturbo e assetto nel fatto visuale.
Nelle successive esperienze Chiggio si avvalse di altre possibilità inerenti, come si è detto, a materiali di ordine industriale e a quant’altro fosse in grado di stabilirsi come “base” alle operazioni, d’ora in poi decisamente cinetiche, che l’operatore veniva svolgendo confortato, allora, da un dibattito con gli operatori del Gruppo Enne, (Biasi, Costa, Landi e Massironi) .
Chiggio si serve allora di retini metallici e di fonti luminose (interferenze luminose), ripetendo poi e variando le problematiche producendo alcune opere che hanno un carattere esemplificativo, costituiscono cioè uno dei termini della problematica stessa e si rivelano quasi come moduli (vedi Quadrati spaziali del 1962 e Riflessione ortogonale in spazi cubici sempre del 1962) .
Si viene rapidamente alle opere di marcato cinetismo e che costituiscono l’esito ultimo dell’operazione di laboratorio e al contempo garantiscono a tutt’oggi una continuità sperimentale, attraverso una serie inesauribile di variazioni: sono compresi in questo gruppo gli oggetti in plexiglas inciso (Interferenza quadrati + cerchi del 1966, Interferenza cilindrica luminosa, Dischi variabili ecc.).
Per quanto riguarda la ricerca grafica, Chiggio approfondisce le primitive esposizioni in un senso tutto ottico-visuale, tenendo conto anche del colore nelle sue vibrazioni tra complementari, si veda per esempio la serigrafia su carta in cui il problema sintetico cerchio-quadrato viene reso più evidente nelle scelta di due colori, ad alta vibrazione: altri problemi di torsione e di espansione vengono da Chiggio analizzati attraverso un sistema di proiezione ortogonale di una superficie curva attraverso il modulo del quadrato.
(S. Orlandini, Chiggio, Galleria Paolo Barozzi, Venezia 1968)
Il rapporto tra gli uomini e gli oggetti – e le situazioni – ha raggiunto un grado tale di aleatorietà e di saturazione per cui sembrerebbe che la progettazione dovesse negarsi per soffocamento.
Noi partendo dalla progettazione come nostro quotidiano strumento di lavoro e di meditazione riconosciamo in essa un mezzo di conoscenza della realtà ambientale in tutte le sue complessità.
Progettare è la condizione in cui possiamo proporre delle intenzioni e mediante la quale tentare di organizzare delle risposte.
Progettare nel senso di non ipotizzare immediatamente la produzione di oggetti con precise connotazioni formali ma nel senso della ricerca, della sperimentazione, dell’elaborazione di proposte.
Operare per immagini vuol dire comunicare dei contenuti specifici che non sarebbe possibile comunicare con moltissime parole in tutto il loro contenuto informativo.
Non ci interessa, anche perché in fondo è impossibile, precisare i principi teorici che informano il nostro lavoro. La cosa che noi pensiamo più efficace è quella di indurre una lettura mediata da delle immagini che illustrano i progetti.
Per facilitare e introdurre questa operazione è utile dare alcune indicazioni di carattere operativo.
Non pensiamo necessario che la forma debba denunciare a prima vista la funzione degli oggetti.
Da ciò deriva che il rapporto deve essere mediato dall’azione, questa compromissione aumenta le possibilità di conoscenza, integra la percezione e rende più completa e coinvolgente la fruizione. Ciò comporta un rifiuto della standardizzazione, degli schemi di comportamento e degli atteggiamenti. Accettare tali schemi vorrebbe dire accettare la forma legata alla funzione, la funzionalità tesa all’efficienza, l’efficienza matrice di produttività, in una concatenazione che bisogna spezzare se non si vuole rimanerne imprigionati.
La componente Ludica che interviene nel rapporto diretto fra le cose e il fruitore diventa un momento molto importante anche tenuto conto del fatto che noi rifiutiamo il concetto filisteo e puritano del gioco come svago, solo perché reca piacere; pensiamo sia più giusto eliminare ciò che non reca piacere.
I limiti dimensionali e strutturali che solitamente regolano le metodologie del progettare possono essere variati, modificati, distorti facendo sì che gli usuali rapporti di scala, le dimensioni assuntive possano venire disattese nelle loro aspettative aumentando così le valenze emotive del vissuto.
L’attività progettuale si è venuta organizzando in regioni di operatività ben definite, che hanno assunto configurazioni di scuole, di correnti, o di ambiti di attività (design, pittura, pianificazione ecc.) ognuna con un suo campo di ricerca, con limiti riconosciuti e di rado oltrepassati; tali limiti per noi non esistono, sono una costrizione inutile, una forzatura innaturale.
Non ci interessa la professionalità istituzionalizzata e corporativa.
Il nostro campo d’azione è il mondo figurativo nel suo insieme se con questo termine intendiamo il comunicare e il ragionare per immagini, il progettare e il costruire situazioni che tengano conto e pongano continuamente in discussione le dimensioni del percepire.
Da ciò deriva la nostra disponibilità ad accettare tutti gli apporti che rientrano in questo ambito, da qualsiasi parte essi vengano, se rifiuto c’è è il rifiuto delle denominazioni, delle correnti, delle definizioni che vogliono differenziare e rendere riconoscibile e unica una trovata, una ricerca, un campo di attività, che in fondo non esiste perché fa sempre parte di un contesto più ampio.
(E.L. Chiggio, T. Costa, E. Landi, M. Massironi, Infodesign, 1972)
Un punto che va chiarito e su cui è necessario sgomberare il campo da equivoci dovuti o subiti, nel settore sia del progetto sia in quello più generale della prestazione d’opera, è la qualità del lavoro.
Intendiamo parlare di quel punto nodale su cui da sempre è costruita e fatta funzionare saldamente l’ideologia padronale.
Dare definizione alla connotazione “qualità del lavoro” è necessario in quanto pensiamo che molti dei lettori di questo testo e molti interlocutori con cui siamo entrati in contatto nel settore del progetto, contrariamente a quanto avvenuto per il proletariato e per il mondo operaio in generale, hanno notevoli difficoltà a una lettura in “spaccato verticale” del fenomeno “qualità del lavoro”, difficoltà create dalla loro attitudine o dalle altrui spinte, e a costruzioni ideologiche che nascondono con una grossa mistificazione i termini reali del problema.
Vogliamo ricordare brevemente – in quanto riteniamo essere materia di indagine in sedi più appropriate – le lotte e gli scontri di cui si è fatta protagonista la classe operaia italiana nell’ultimo decennio sul tema della qualifica.
Era divenuto chiaro per l’operaio che andava colpito l’anello che univa la catena: qualità del lavoro, qualifica, mansione.
Queste lotte dovettero però fare i conti con un padrone che aveva avuto il tempo di dare una “propria interpretazione” al problema, massificando, appiattendo, rendendo interscambiabile le mansioni, “razionalizzando” (in maniera tayloristica s’intende) il ciclo.
Ma per il progettista, per il tecnico – dentro e fuori la fabbrica o la manifattura – il problema si presenta di più difficile e complessa lettura, date le pesanti eredità di una sua parcellizzazione mentale e di un’atomizzazione fisica sul territorio …
La qualità è anche un parametro del prodotto che ha notevoli valenze o valori di ordine tecnico produttivo, formale, estetico e d’uso. Per essere letti, ossia acquisiti come valori e scambiati, occorre che il fruitore sia a conoscenza dei veri gradi della scala e abbia speso del tempo (scolarità) in questi processi conoscitivi. Questo processo di conoscenza avviene nel sistema attuale tramite una cultura organizzata dentro e fuori la scuola con differenziazioni disciplinari.
Ciò significa, sia per gli industriali sia per i progettisti, che per mantenere in piedi quel ballon d’essai che nella realtà produce vantaggi considerevoli, si parli di cultura e di qualità del prodotto in modo che solo coloro che sono capaci di discernere all’interno dei valori tecnico-formali d’uso siano in grado di essere produttori prima e consumatori poi di questo prodotto culturale.
È infatti in questa complessa tessitura che funziona il ruolo del designer progettista. La storia della specializzazione tramite la cultura nasconde un vero processo capitalistico di appropriazione di stock d’informazione. Il designer progettista singolo che si presenta nella propria qualità individuale di avente professione e conoscenza, in realtà è il frutto dell’anticipazione per lungo tempo sull’individuo di capitali sociali che vanno dalla scuola ai servizi. Infatti la cessione, come bene-cultura, al capitalista di tutto questo stock d’informazione perché si trasformi in prodotto, in ultima analisi non è altro che un grosso risparmio dell’interlocutore del progettista, del committente: l’imprenditore.
(E.L. Chiggio, Qualità del lavoro tecnico e progettista, in “Quaderni del Progetto 1”, Edizioni Quaderni del Progetto, Padova 1974, pp. 40-57)
Il “progetto radical” si connota nella metafora dell’ice-cream, come maniera di fornire l’immagine del mondo secondo una scelta improcrastinabile che deve far decidere di mangiare il gelato o di essere mangiati da esso: progetti di “bombe-mela, caramelle velenose, bugie quotidiane, false informazioni, insomma coperte, letti o cavalli di Troia che messi in casa distruggano tutto quello che c’è”, dimostrano altresì come l’architettura e il design venissero concepiti come terapia e, complessivamente, come strumenti di trasformazione del mondo, attraverso l’artificio del simbolismo che caratterizza tutta la parabola dell’architettura “figurativa” del radical e dell’area culturale circostante, salvo il caso di un uso deliberatamente autoironico dello stesso simbolismo portato alle estreme conseguenze nelle provocazioni di un arredo alla Gaetano Pesce o di una antropomorfia urbana alla Ennio Chiggio.
Il ludico, nel movimento radical fa i conti dunque con una incessante e più o meno consapevole pedagogia, anche quando il movimento si dichiara “anti-utopico”, perché perfino le più esasperate provocazioni sono sempre riportate a un sistema di rappresentazione unitario intenzionalmente direzionato a discutere e a rimuovere codici riposti nella logica della Ragione, quest’ultima usata come metrica delle “composizioni poetiche”, in cui, per esempio, le Stanze vuote o i Gazebi degli Archizoom “si collocano come sonetti”.
“Illustrazioni” come La linea del tempo (1973) di Franco Raggi o Il pianeta come festival (1972) di Ettore Sottsass dimostrano emblematicamente la coscienza di un’epoca che ha formato la sua storia e la sua architettura a seguito dell’immaginario, e cioè dopo l’epoca disneyana e pop, nella quale era stato tentato inutilmente l’ultimo baluardo contro la perdita di identità linguistica provocata dai mass-media.
In questo senso la cultura “figurativa” del movimento radicale riappare dentro la dimensione postmoderna, ma con una notevole differenza, dato che quella proiettava il riferimento citandolo dentro una filologia e dentro una funzione, mentre questa usa del materiale e delle idee della storia e del passato senza sentire alcun complesso di inferiorità e senza porsi in posizione dialettica con nessuna memoria e nessun monumento.
(E.L. Francalanci, Del ludico. Dopo il sorriso delle avanguardie, Mazzotta, Milano 1982, p. 40)
Scendere le scale in nudità… è atteggiamento noto dell’arte concettuale, ogni scala è un piccolo cosmo da transitare.
A Venezia i ponti hanno le scale, innalzano a gradi il deambulatore, climax per eccellenza.
Gesto mediato, non ardito slancio del manufatto che unisce due sponde, due siti, uno da lasciare, l’altro da affrontare. Il tragitto così artefatto va vissuto gradualmente: a una salita corrisponde una discesa. Il transitare è atto da pontefici, ha bisogno dell’inter-cedere divino per denudare la realtà di una mediazione impossibile con l’aldilà. A Venezia le pietre sono intarsio, sono lacerto, preesistenza, i muri sono cornici che contornano altre pietre che divengono telai e stipiti di porte, serie innumerevoli di rimandi.
Serie di dettagli che continuano a contenersi fino alla fatalità delle aperture.
Venezia: una specie di atlante, lessicario, vocabolario, repertorio tridimensionale, parlante di architettura che si prospetta ai passi perduti del viandante-visivo, del flaneur-architetto, del progettista-dandy, nelle sue peripatetiche passeggiate.
Il tacco rumoroso batte ove risega vuole, lapis e lapidi producono solchi, fenditure… dolore.
Pietre ove il piede piano, si imbatte, ove il maestro incede con la distrazione di sempre…
Ogni cosa ha la sua base… si fonda su qualcosa di non espresso.
Nel collocare un’opera, ciò che sta sotto e sorregge è “interpretazione” di ciò che sta sopra… è un sistema di segni che spiega il corpo sovrastante, è sintagma che cerca il vicino per dare forma a una esposizione “verbale”.
Frazionare, rompere per ricomporre altrove “altre frasi”, allontanare le estremità (le teste e i piedi), riprodurre frammenti assenti di stile, con questa liberazione – sostiene il maestro – dal collo al ginocchio c’è l’arte! (ossia il classico).
A Possagno il Nostro rivisita, ricontrolla, vive nella parola un erotismo sottile: “i punti neri sui corpi nudi delle donne (punti di rilevamento per il copista sul gesso) sono di un fascino indescrivibile”.
Una narrazione scarpiana per interposte “figure” ove una corporalità androgina prende forma fantasmatica…
Ma si sa! Gli architetti, lettori postumi di opere altrui, non vogliono impicciarsi nelle reti tendenziose e allusive, troppa manualistica “razionale” intralcia la pulsione “simpatica”.
Il corpo pulsionale deve essere bello, sublime, allestito, decorato anche solo da piccoli “punti neri”, quindi ri-vestirsi con abiti di buon taglio, un cappello di foggia… una sciarpa di lana irlandese, una scarpa fatta a mano… è lingua materna, ma questa è una questione di de-taglio, il rivestimento si addice a un corpo un po’ ubu “a forma di pera”, che non contenuto si perderebbe in minuti frammenti.
(E.L. Chiggio, Un lucido per Scarpa: appunti per una lezione mai fatta su frammenti colti in flagranza…, in Carlo Scarpa: dettaglio d’autore, Ricerche del Corso di Design, Accademia di Belle Arti di Venezia, 1983)
Ci sono città che stabiliscono un rapporto particolare con la propria esistenza. Come le polis greche avevano nomi di numi tutelari – divinazioni delle salienze del sito – così Murano, Burano, Capua, oppure Leverkusen, Rochester … legano il proprio nome all’oggetto della loro produzione. Ancora, “città” diventano company town nel nuovo mondo. L’elenco potrebbe continuare producendo patronimici tautologici, ma spinti, come abbiamo premesso all’inizio a quella scala della particolarità, restringiamo il nostro osservare all’area vicentina, ove troviamo ancora “esemplari” congiunzioni tra città e fabbrica: Montecchio-Ceccato, Schio-Rossi, Valdagno-Marzotto e infine Breganze-Laverda. Sono destini che si legano in maniera paradossale nella loro contraddittorietà sociale; si ripete la situazione del liberto romano che con “intelligenza” mette a profitto il rapporto alienante con il patrizio.
Gli abitanti di Breganze oscillano per parecchie generazioni tra il lavoro dei campi, l’emigrazione, o il lavoro in fabbrica che lì, per antonomasia è Macchine Agricole o Moto. È in questo rapporto di concomitanze, di contiguità… gomito a gomito, che il paese si sviluppa. Nel caso Nostro, ossia della Moto Laverda, il rapporto è più intenso, è a scatola cinese. All’interno del paese la fabbrica, all’interno della fabbrica la casa del padrone, una specie di fortilizio, una “acropoli” ove sono custoditi i nomi tutelari, ove risiede una ritualità, ove privato-individuale e pubblico-collettivo confondono i propri obiettivi. La sirena scandisce un tempo “divino”, inarrestabile (assimilabile alla “campana”) a cui sono collegati tutti i ritmi “biologici”, sia di chi dirige, sia di chi è diretto.
Forse… un Cronos che divora i suoi figli misconoscendoli!
È in questa temperie, in questo clima, che si sviluppa il laboratorio, il pensatoio ove Francesco Laverda esperimenta, come nella migliore scuola sia alchemica sia scientifica, le proprie meccaniche, le cinematiche, tutto quel mondo positivamente “finito” verso cui volgere le proprie attenzioni per dar limiti alla segreta “infinitezza” del proprio io.
La vita di Francesco si svolge in uno spazio compreso tra “dimora”, “studio”, “fabbrica”.
È storia di famiglia che il giardino di casa venga sacrificato per stendere il lungo anello d’asfalto ove si collaudano i prototipi che nascono due passi più in là.
Il “suo” non è un ufficio di un “capitano” d’industria, di un dirigente che guarda alla virtualità del finanziario, ma lo studio di un “fisico”, di un ricercatore che materializza quotidianamente nel suo tenace empirismo, il credo della sua positiva scienza.
Intorno, Francesco, è circondato da una professionalità mirabile, non c’è idea, disegno, intuizione che non possa essere posta quasi subito sul banco di prova, divenire “realtà” grazie a quella generosa predisposizione del “quadro professionale”, che troverà per lunghi anni posto nelle fabbriche del vicentino e che contraddistinguerà lo sviluppo dell’area veneta.
Circondato da questi uomini, silenziosi, “dalle mani d’oro”, ma diremo noi da questa élite operaia, prendono forma molti arditi progetti: dai motori per le moto, agli studi per il volo verticale, dalle attrezzerie perfezionanti il ciclo di produzione, a piccole invenzioni “archimediche” per il giardino o per svitare con meno sforzo una caffettiera. Ambiente di fabbrica e ambiente domestico sono i pazienti ambiti ove si misura l’occhio di Francesco, tutto diviene razionale, oggetto di progetto, di studio, di pensiero “problem solving” a sua misura.
Un atteggiamento più vicino a un pragmatismo da chiesa riformata di marca cattolica.
Nella cattolicissima, ma tollerante regione veneta, queste realtà convivono senza conflittualità apparenti, tra oratorio e fabbrica, producendo da sempre quel “miracolo” economico che gli economisti definiscono eufemisticamente “fabbrica diffusa”.
Francesco Laverda, come abbiamo detto, era uomo silenzioso e discreto (in senso matematico).
Figura alta più della media, asciutta, molto tesa, un volto affilato, nella maturità segnato, naso classico sottolineato da cospicui baffi neri che gli avevano meritato il familiare epiteto, “baffo d’acciaio”; occhi acuti e profondi accompagnati da un antico sorriso. Le mani lunghe e nervose erano indicatori di stato che sostituivano le molte parole mai dette. L’abito, grigio, era sempre al limite dell’eleganza. Misurato, come dicevamo, nella persona, nel contenente, celava a nostro parere, tensioni interne, domande inespresse e forse profonde solitudini. Il dialogo con Francesco era sempre breve e condotto sui binari della necessità, nemmeno la famiglia,sempre in aumento, stemperò questa invalicabile frattura, che egli, aveva messo in atto con il mondo.
Anche il rapporto con i numerosi fratelli fu sempre asciutto, improntato a quella serenità che l’etimo più profondo della parola disvela.
Possiamo per il momento definirlo “ermetico”, nel senso affidabile a ogni uomo che, avvezzo ai numeri, si chiude in un pitagoricismo da iniziati.
Infatti gli unici momenti in cui egli si apriva, la parola avveniva, era sui fatti scientifici – soli argomenti – in grado di sciogliere la sua “diffidenza” al mondo.
Ma l’interlocutore non sempre era in grado di dispiegare le faldonature di questo carattere uranico.
Diciamo che questa sapienza titanica, da Efesto, si disvelò tutte le volte che si mise in atto una installazione a un impianto di fucinatura a stampaggio. Questa creatività metallurgica, pensiero affinante la matrice, da cui far uscire “creature”, perfette, a immagine e somiglianza – positiva rispetta al negativa della stampa – lo affascinava. Si trattava a nostro parere di una profonda soddisfazione “estetica”. Vedere uscire dalle proprie mani, dar carpo a un modellato tecnologico, in grado di esprimere la visibilità dell’atto creativo.
Un momento magico a cui anche il Nostro, positivista e pragmatico artefice, non poteva sottrarsi. Ancor oggi molti artigiani operanti in zona debbono a lui (e lo ricordano volentieri con enfasi) l’affinamento dei processi a la maestria loro insegnata.
Pensiamo che ogni buon lettore possa cogliere il fascino emanante da un materiale fluido che versato nella segretezza della “conchiglia”, disveli dopo l’apertura, nella solidità del getto – che si fa oggetto duro – la sensibilità formale di descrittore sintetico di processo.
La fusione dialoga con appropriatezza, detta una plasticità che troverà il sua senso nell’unione con altre parti mobili.
Ecco, è nell’assiemare degli arti, delle parti arti calanti, che prende vita questa “prodotto” autonomo, replica con movenze da automaton di cui abbiamo parlato precedentemente: il moto è sempre per-turbante!
A questa sirena, chimera, forse Francesco Laverda ha dedicato, ha declinato gli atti della sua volontà, in un “agito” di per-versione, per-ex-sistere, che tutti noi chiamiamo con non poca “sublimazione”: civiltà delle macchine.
Questo, forse, era un suo mistero!
(E.L. Chiggio, Umano, troppo umano, in Laverda, QdP Edizioni, Padova 1988, pp. 32-33)
L’estetica… è una questione di pelle, esoderma… esornazione, superficie che si rende sensibile (all’occhio), al percettore… ma oltre quella soglia di contiguità, ove l’eso diviene endo-derma, lo sguardo indagatore dell’esteta si ferma… ahimè!
Sapere superficiale, in ciò la sua condanna alla nullità!
Disciplina sensazionale, sensibilista, opinabile… senza senso?
Emozione-Desiderio-Piacere, il suo confine è la lussuria?
Non è certo tramite le scorciatoie (riduzionismo) del senso comune, della similitudo brevior, che si arriva all’estetico; al massimo, se creativi, si raggiunge una metafora estetica.
Estetica e design le polarità del nostro discorso, e in quanto l’una si sostanzia nell’altra: una tipizzazione.
Le due discipline hanno “loro” storie… l’approccio estetico ha parecchi millenni e volendo anche quello progettuale-design ha lunga memoria. Ma il problema è altro.
Collocare una data è empiria, ma dichiara con precisione la tendenziosità, ossia centralizza la tesi, ciò che vogliamo dimostrare.
Collocheremo la nostra analisi nel Contemporaneo, intendendo con ciò, l’insorgere agli inizi del Novecento di una manifattura, l’industria, capace di ripetere, riprodurre meccanicamente – atomizzando e parcellizzando le mansioni – sia oggetti, sia forza-lavoro, cooptante un pensiero estetico.
Su questo scenario coglieremo il ruolo “livellante” svolto dall’estetica, che applicata all’industria, quindi filosofia applicata, ne determina la sua visualità, il suo sensibile per l’appunto.
L’estetica è ricopertore tematico del chiasmo tra progetto e prodotto apertosi con la industrializzazione, ivi è la dia-ferenza.
Ciò che si potrebbe fare, e ciò che viene realmente fatto è la differenza. Lo strumento produttore di tale differenza è la macchina, per sua natura essa non porta il suo giudizio estetico, come codice genetico, all’interno di sé. Quindi se tralasciamo – ma vi faremo ricorso più volte – il terreno che per lungo tempo è stato “palestra” dell’estetico: l’arte, considerandola “esausta”, allora l’indice sarà puntato sull’unica funzione estetica del contemporaneo: le merci e l’esteticità diffusa.
La pelle e le sue irritazioni, dermopatologie del quotidiano…!
La dermatite risulta essere però malattia endemica.
Gli estethiciennes francesi, intorno alla metà del Settecento pongono la centralità del tema: i Principia artis, la categorizzano, riducendola a un principio unico, definiscono queste azioni Belle Arti.
Da qui alle Accademie, ai Musei, come repertorio di servizio per la copia dei modelli, il passo è breve; in Venezia-Accademia/Museo divengono emblematici.
L’imitazione si propone come “theoros” autonomo che sfila a lato della filosofia, come nei secoli precedenti era già successo, per medicina, matematica, scienze naturali: “Corso speciale” degli eventi filosofici.
L’abate Batteaux inutilmente tenta di suddividere le arti meccaniche da quelle utili e infine da quelle belle. Il criterio è la soddisfazione dei bisogni nelle prime, l’utilità e il piacere nelle seconde, il solo piacere nelle ultime. Ma tutto ciò sottolinea solo un pensiero che non supera l’antica divisione tra lavoro manuale e intellettuale.
La società che prende forma con questa struttura è aristocratica: non trova posto in quel mondo la fabrilità della technè.
L’arte tanto più è quanto più si fa!
Molte domande, e molte ansietà si pongono alla estetica, contenitore “vuoto”, che va riempiendosi di oggetti… vaso di Pandora… da molti ormai considerato – riempibile – solo dalla storia!
Ma se ciò fosse vero, perché l’industria adotterebbe un processo di valorizzazione, così costoso, per rendere visibili i propri prodotti, attivando quel fenomeno molteplice definito design? Spostando e convogliando masse di addetti dalle più svariate discipline facendo così confluire nell’alveo magno del design, architetti, artisti, storici, esteti, sociologi, economisti? Tutti questi soggetti si riuniscono in “coorte” e danno forza a quella “teoria della rappresentazione”, nota sotto il nome di progettazione industriale o, come la definiscono i francesi, giustamente, estétique industrielle.
Ora, proprio la Francia e Parigi in particolare, emblematizzano l’estetica industriale.
Il Beabourg, la Villette, il Museo della Gare d’Orsay sono le nuove cattedrali ove masse di fruitori affluiscono tra le caffetterie interne e le sale d’esposizione, tra le piazze antistanti, ove si snodano pazienti code – la gente – in attesa di essere ammesse all’avven(imen)to.
Questa frequentazione collettiva riaccende la querelle sull’estetica come unica disciplina in grado di dare simboli all’immaginario. Così facendo, si produce quella caduta libera nel reale di cui non è possibile – secondo la topica lacaniana – tappare il buco.
Eppure le Art-Guild, le Art-and-Craft, il Vuchtemas, il Bauhaus, le Wiener-Werkstatte, il Deutsche-Werkbundt sono stati momenti determinanti dell’estetico… chi ne ha parlato “ex cathedra aesthetica”?
Rimettiamo sulle gambe ciò che finora ha camminato sulla testa utilizzando un motto marxiano?
Se l’estetica, a buon diritto, sta nella filosofia, essa non ha a che fare con oggetti, ma con condizioni. La condizione è tipica, di qui la tipicità del design, l’estetico, titolo del nostro dire…, ora la nostra dizione si è resa trasparente!
Ma come? A mezzo di esempi, mostrati nella luce più favorevole per essere compresi come tali. Essi sono dati come occasione (occasum) di riflessione sulla esperienza (experire).
Gnoseologia, quindi teoria generale della conoscenza, ma non estetica, si potrebbe sostenere… ma c’è adeguatezza tra l’exempla e la parola descritta che lo copre? Exempla è il typos, è concetto che si adegua ripetendosi alle rappresentazioni della immaginazione.
Il tipo, la tipicità dà merito all’inesprimibile? Cosa vuol dire: quella sedia è bella? Che risponde a regole, misure, antropometrie, quindi tipizza un uomo ideale per cui – sedere – si dà come scopo.
Quel tipo dimostra a “prima vista” la sua intenzionalità, quella sedia funziona poiché mette in campo solo ciò che “vuol dire”. Minimalizza tutte le sedute… ma se avesse rispettato simultaneamente tutte le regole, sarebbe ancora l’oggetto della nostra attenzione estetica? Sta invece “innovando” nel tipicizzarsi, immette un quid atipico? Non riferibile a tipi anteriori? Scatta qui il “fa pensare”.
Si attua una esemplare apertura all’esperito, al significare?
Il senso-tipo, cioè la condizione del significato è indicibile, per questo si dà come significante…
una tipica approssimazione di senso!
Si tratta quindi di un individuum, cioè di un irrazionale singolare – dato dall’esperienza – concreto, che non “avviene a noi” per via solamente logica e nemmeno la fonda.
L’individuum non può formarsi, né dal particolare al generale, inducendo, né dal generale al particolare, deducendo.
Il genus cogitandi aesthetico-logicum (Baumgarten) deve forse ritrovarsi ancora in quel processo nelle due direzioni: abduzione, in cui l’analogon rationis, pone in essere una rappresentazione distinta, chiara, conforme a “verità”!
Il tipico dell’estetico potrebbe essere un’ars analogi rationis, una cognitività che pone l’estetico come – ancora – filosofia tout-court.
(E.L. Chiggio, Praefactione in forma di praeludium. Una estetica giocata sull’allusione, in La tipicità del design. L’estetico (an-estetico), Collettivo Studi Accademia A.B.A.,Venezia 1988, pp. 7-11)
Non vi è niente di più mutevole che la concezione di razionale, ovvero la funzionalità indicizzata porta ai successori un già costruito che al solo sguardo si fa già storia.
Ogni edificio o cosa è adeguato alla realtà “nel modo” che è lì.
La realtà (la verità?) ci fa illudere che la cosa, l’oggetto, rientri pienamente entro i limiti della ragione (il cogitante?).
Non sappiamo dire che tipo di interesse hanno le cose se non che sono complesse. Sul MODERNO, poi, neoconservatorismo, postmodernismo, poststrutturalismo si giocano ambiti esistenziali in cui istanze moral-pratiche/estetico-espressive/filosoficoepistemiche si svolgono come regole del gioco che sono in “ultima analisi” forme di vita. Mettere sul piatto le regole del gioco, ossia dichiarare la razionalità (ancora del moderno) è ribadire con forza che il significato è l’uso ovvero dimostrare l’INTENZIONE.
Dato che il vedere – e questo è ambito del design – è connettere, vedere (l’oggetto) è uno scoprire la/le relazioni interno/esterno che col-lega oggetto-atteggiamento, allora il secondo termine, l’atteggiamento, è intenzionare, una cristallizzazione della connessione formale tra i fatti, come direbbe Wittgenstein. Noi oggi possiamo dire che la fisionomia è una rappresentazione cospicua, ma possiamo ancora dire con Habermas che un fatto è riconosciuto come tale sullo sfondo di proposizioni precedenti che consideriamo valori radicati nella nostra forma di vita; la nostra forma di vita è sempre leggibile sub-specie economica, questo il messaggio contenuto in sette lectures (esse si portano anche la magia del loro numero!). Post-stilum, a seguito dell’acutezza dello strumento, del nostro usare la grafia come arma-da-taglio, ci troviamo al fondo sentieri interrotti, tagliati via, e siamo immersi nel vortice del progetto tra thesi-tracce-lavoro che libera energia, un vortice heideggeriano.
In questo circuitare sul progetto operiamo dis-velamenti, ma anche ERWARTUNG aspettativa/attese, supponimenti/sussistenze. Abbiamo enfatizzato, reso attendibile per credere, fatto prestar attenzione per occuparsi di… attendere per curare.
Abbiamo messo sul tavolo (anatomico) punti di vista, ci siamo messi in aspettativa dispensandoci momentaneamente dal servizio, per rendere cospicuo l’aspetto = l’apparenza.
È su queste aspettative che abbiamo a lungo posto interrogazioni… auspicere per guardare… posizione gratificante, soddisfacente, legittimante in cui l’aspettativa del design si fa immanenza/ imminenza.
Le nostre, che sono ancora vie per le Indie, interrotte dalle improvvise Americhe ci avrebbero dovuto portare in fondo a “formulare” sulla innovazione, ovvero quel momento in cui il numero degli errori diventa insopportabile, ove gli errori processualizzano l’innovazione, ove raffiche gerarchizzate di essi portano a nuovi cluster-totalità in cui ammassano valori, DOMINII della innovazione, ma non parlandone ci siamo riservati un futuro… quello del porsi in condizione, condizionare, un problema che si pone oggi è quello della DISTRIBUZIONE!
(E.L. Chiggio, Postilla: il design ha una ragione?, in Sette “lectures” sulla economicità del design, Collettivo Studi Accademia A.B.A.,Venezia 1988, pp. 81-82)
DECISIONE (scelta) EMOTIVITÀ
Mettere in tavola, intavolare un discorso, questo è l’uso simbolico di un “oggetto” delineato come incipit. Ma rappresentare su una tavola significa anche dare iconicità: dimostrare un enunciato, configurarlo come modello. Dimostrazione quindi, attraverso una “forma”, che raffreddi l’emotività con il dispiegamento di un motivo, tipo, ripetizione di un tema.
Questo l’assunto, e un tavolo sperimentale sul cui piano da un punto centrale si dipartono delle funi messe in tensione da “pesi trabordanti” è l’allusione – il tutto – per ricercare un punto di equilibrio medietas, che riconnetta esperienze altrimenti fratte.
Poiché questa è la rappresentazione canonica di una ricerca operativa, la ragione del suo esemplare sta nella definizione del punto di equilibrio, operare tipico del design.
Un equilibrio, quindi, tra: Certezza, incertezza, gioco, condizioni e congiunzioni di piccoli e grandi decisioni più o meno sensate, messe in essere con azioni più o meno adeguate. L’arte difficile delle decisioni è l’oggetto del design, disciplina che si occupa di “finalità”, di scopi raggiunti che per comodità o pigrizia definiamo comunemente “oggetti, manufatti, cose”.
Ma notevole è la differenza modale tra decisioni prese in stato di certezza, e quelle assunte nell’incertezza, ove il risultato dipende da situazioni aleatorie, e alfine quelle che si determinano nell’incertezza competitiva “gioco”, ove esiste un competitore che influisce con le sue scelte sul risultato delle scelte altrui.
Scelta come atto di una ricerca finalizzata (operativa), atto di progetto (che si estingue per sua natura nell’oggetto), design come opposizione all’esistenzialismo, design che si oppone ancora con la sua teleologia alla metafisicità emotiva del quotidiano!
Un evento futuro – oggetto di un progetto – è predestinato? La sua verità o falsità dipende esclusivamente da casualità insite nel processo stesso (cognitivo) dell’umano? Le domande malposte, sono “male-dette”! Pongono complicanze.
Allora quali sono le circostanze che complicano i problemi e la cui mancanza caratterizza la banalità? La maggiore o minore numerosità delle alternative (delle risorse) potrebbe essere la risposta. Ci pare più utile, però, sottolineare quella f(n) funzione di preferenza, così cara al matematico statistico, e così vicina alle esperienze dal nostro osservatorio smaliziato! Poiché il requisito della decisione dovrebbe essere la coerenza, ed essa alberga tra necessità e possibilità, ovvero scegliere tra alternative, il non coesivo si rende possibile solo a non far nulla, lasciando le cose come stanno!
Ripetendo gli eventi e scartando ciò che riteniamo negativo ci avviciniamo – lo confermano le teorie statistiche – a stati di ottimalità, ma ciò ha un costo, non solo reale ma anche teorico, di qui la massimalizzazione dell’utilità sperata come enfasi del designo Immaginare le conseguenze immediate e future è una forma della creatività, materia rara nel mondo delle imprese… umane in cui regna lo stereotipo positivista!
“Non esiste un salto tra ’ignoranza’ e ’certezza’, bensì un progressivo adeguamento della valutazione probabilistica all’effetto dell’esperienza combinato coll’opinione iniziale” dice De Finetti, nel lemma Decisione della Enciclopedia Einaudi e non si può che essere d’accordo.
Però il settore del progetto “mobile” pullula di adhocaggini (le adockeries di Irving Good) fatte da professionisti pronti con risposte buone per tutte le stagioni, dopo una rapida sfogliata al cookbook (ricettario) … Ma non tutte le ciambelle…!
Questa la critica e la sua funzione, di qui “una” didattica anche se non sempre, per istituzione, “magna”.
IL MENAGE (ripetizione) MOTIVO
Ispezionare il rapporto “difficile” tra arte e design significa, a ogni svolta ritenuta irreversibile, rifare il punto.
Qui la centralità di Paul Klee; chiamato in causa per la teoria della forma e della figurazione riletta attraverso uno schizzo “domestico”, una piccola gag familiare, sottile appunto per una compagna, Lily, che sottende complessità nel “loro” menage… ovvero avventure nel luogo deputato del “mobile”: la casa, meccanicità di una ripetizione, travestimento, mobili come persone, animato vs inanimato.
Klee, ancora, con le sue innumeri valenze, con la sua “storia naturale infinita” (vedi Scritti pedagogici di Klee, vol. II, Storia naturale Infinita, in Teoria della forma e figurazione).
Storia di analogie tra biologia e arte applicata tra parti anatomiche, scheletro dell’animale e costruzione artificiale, il paragone è emblema “tacito” della funzione!
L’oggetto di design si configura con naturalezza al suo scopo... questo il paradigma del “moderno”, profondamente funesto. Una teoria darwiniana del design viene ancor’oggi insegnata come risultato di infinite repliche susseguentesi – come ereditarietà – nel corso delle quali si verificherebbero quelle “variazioni” che collaudate dall’uso (selezione) o espunte, quando non “funzionali”, poi spariscono (Philip Steadman, L’evoluzione del design). Gregory, ancora, incalza: “Il senso di ’giustezza’ che ci trasmette un disegno è ineludibile. Di converso, l’’erroneità’ estetica è altrettanto potente, perché può ispirare lo grandezza o sedurre fuorviando. La domanda è: al di là delle brute considerazioni funzionali, cosa può qui fungere da guida, per determinare il design?”.
La risposta ovvia è l’estetica… ma come trovare accordo sul processo di valorizzazione che essa implica?
Quando il pre-testo non riesce a dimostrare lo svolgimento di una funzione che si vuole concimata e auto esplicitante, allora la coesistenza si fa difficile, semmai di coalescenza si può parlare.
Un fantasma si aggira tra le discipline progettuali, non trovando luogo, né pace – a lato si pone – di ogni cosa… fino a che lo stato delle cose rimane invariato!
Ennio Chiggio
(AA.VV., Mobile e Motivo, ricerche e modelli del corso di Design. Accademia di Belle Arti di Venezia sul tema monografico del tavolo e del contenitore, Venezia, Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, 24 novembre - 10 dicembre 1989)
All’amico e al maestro che se ne va, lasciandomi con pochi compagni di strada nelle peste (ah, i tuoi giochi di parole, i nostri giochi sulla parola: dalla peste di questa Accademia alle peste che abbiamo tracciato e che bisogna seguitare fino alla fine – e comunque di impronte si tratta, di im-pressioni che hanno sempre cercato di es-primere, lasciando “immagini”... anche se i maestri non van presi alla lettera) dedico questi esercizi di memoria, ché tali sono le poesie, strumenti per far riemergere sul fondo del liquido trascorrere del tempo vitale l’eterna figura della parola, del segno.
Ma guarda come si mesce da vaso a vaso il sapere: quel pensiero che già è invaso, ma invasato, cioè turbato da cause interne od esterne che lo agitano, lo muovono, lo irradiano (la quiete non produce dynamis!).
È invaso poiché esso è dall’inizio, esso è l’inizio; è invasato, turbato, poiché scambia continuamente flusso, energia: “Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio, al centro, / movesi l’acqua in un rotondo vaso, / secondo ch’è percosso fuori o dentro: / nella mia mente fé subito caso / questo ch’io dico, sì come si tacque la gloriosa vita di Tommaso”; la citazione è divina… argomentando Dante nel cielo quarto, o del Sole, con le anime dei sapienti (3, XIV, l - 6)!
E altrove, nel proemio del Paradiso: “Veramente quant’io del regno santo / nella mia mente potei far tesoro, / sarà ora matera del mio canto, / o buon Appollo, a l’ultimo lavoro / fammi, del tuo valor sì fatto vaso, / come dimandi a dar l’amato alloro” (1, I, 10 -15).
Il richiamo ad Apollo rimanda direttamente alla poesia e all’arte: quel tuo riferimento, nel corso delle tue lezioni sulla “ceramica”, alla misura, all’azione maieutica del modellare, è incalzante. L’apollinea iscrizione delfica “Conosci te stesso”, Socrate la traduce così: “Sono un po’ più saggio degli altri, perché so di non sapere. Ma gli altri non sanno neppure tanto, perché credono di sapere qualcosa”. Questo va dunque, perennemente imparato e insegnato, perché ci si comunichi sulla fragilità del sapere: contenitore d’argilla, esposto a improvvise, imprevedibili rotture, e tuttavia adornato da quello che tu bene chiami il “nastro narrante” di una storia.
Vaso apollineo è dunque ciò che contiene le “innumerevoli illusioni della bella apparenza, che in ogni momento – dice Nietzsche nella Nascita della tragedia – rendono l’esistenza degna in generale d’essere vissuta e spingono a vivere l’attimo successivo”.
Ma da dentro questo vaso un liquido fluisce in quello di un altro; il sogno si mescola con l’ebbrezza, il dionisiaco, il tragico: la certezza della poesia e dell’arte contro la relatività, la malattia mortale della vita.
Vasi comunicanti liquidi con densità diverse: immescibili, poiché secondo la legge di Pascal loro altezza nei rispettivi vasi sarà inversamente proporzionale alla loro densità.
Maestro, il pensiero è dunque transitato?
Mi pare oltremodo sintomatico il tema ultimo che hai affrontato per lasciarci: quale pascaliano esprit de finesse lavorare sulla materia, sul corpo, sul modellabile, dunque, nel momento che è un abbandono, una voluta frattura dell’esercizio destinato di un continuo insegnamento che ci obbliga, ci lega, ci impedisce, ma che ci permetterebbe travaso, incontro e scontro di vitali fluidi, pure nella coscienza della fosca palude accademica.
Ma il tuo ultimo seminario parla chiaro: il pensiero fatica a transitare quando i canali vengono strozzati, quando le densità sono a tal punto contrastate: “Dietro le forti sbarre la pantera / ripeterà il monotono cammino / che è (ma non lo sa / il suo destino / di nero gioiello, funesto e prigioniero” – canta Borges nella poesia dedicata all’imprendibile animale.
Perciò ti dedico queste poesie che parlano della fragilità della vita, del sogno che è la vita, dentro la certezza immortale dell’arte. Ognuna di esse parla per l’universo di eterni pensieri che dominano il poeta, il filosofo, e che lo inducono a trovare salvezza nella condizione “tragica” dell’ebbrezza: la bellezza, la bellezza apollinea dell’arte, si fa vaso contenitore della vita che fluisce.
Queste, dunque, le eterne memorie:
Mimnermo, Come le foglie, in un vaso corinzio (630-550 a.C.);
Alceo, Fuge quaerere, in un Kantharos;
Li Po, Davanti alle coppe piene, in un vaso, naturalmente, T’ang.
Esse parlano per Orazio, per il Poliziano, per il Marino, per Goethe, per Leopardi, per Apollinaire in alcool!
Calligrammi che danno segno all’insignificante.
In fin dei conti lavorare sulla ceramica è lavorare sulla testa: “vaso d’argilla”, vuol dire originariamente; e poi, nel latino volgare si trova accanto a caput, da cui capo!
E a Napoli, ancor oggi: testa per vaso da fiori. Quale stupenda metafora.
E Konka in sardo; Coccia, in Italia centrale, Kapa in Italia meridionale, Cap in rumeno, Cap in catalano, Capeza in spagnolo, Capeça in portoghese: contro la testa italiana e la tête francese.
(E.L. Francalanci, Cosa fatta capo ha, in Le vasche del Filosofo, Accademia di Belle Arti di Venezia, Corso di Design, Venezia 1990)
La grande storia necessita di scansioni diacroniche se vuoi far emergere lo Zeitgeist, la “piega” è la figura retorica, la metabole dello storico. È il piano fenomenico degli avvenimenti all’esterno della supercorda che si stira maggiormente, rispetto all’asse centrale del solido di slittamento preso a campione. Negli anni sessanta la torsione “catastrofale” fu indotta dall’oggetto prodotto industrialmente che magnificandosi nei suoi aspetti formali, si ostentò come atto conclusivo, spostando la merce dall’economico al sociologico indi al politico. La merce, che si era già “distinta” nel boom economico come valore, alla fine del decennio precedente, si manifesterà nei primi anni sessanta edonisticamente permeata da un’industria marketing-oriented.
Il tutto avviene con la grande mediazione ideologica del design; è su questo scenario che le associazioni di categoria dei designer in Europa e segnatamente in Italia si attestano su una leadership comunicativa in cui produttore e progettista agiscono di conserva. L’industria trainante sul piano simbolico e fattuale è quella dei mezzi di trasporto: le auto, le moto, gli aerei, vengono favoriti dal potente dispiegamento di risorse voluto dalle compagnie petrolifere durante gli anni cinquanta della ripresa.
Si attua un predominio delle materie plastiche e di tutti i derivati degli idrocarburi; la nascente industria chimica va sviluppandosi nei principali nodi industriali europei, ma è specialmente in Italia che il Petrolchimico diviene polo assiologico della più matura industria metalmeccanica. Entrambi i comparti si sviluppano su grandi scelte politiche operate su infrastrutture quali le autostrade: grande indotto “sistema” su cui camperanno di rendita tutte le compagini politiche più o meno centriste fino alle strozzature sessantottesche.
La merce, come dicevamo, tra uso e scambio, nella versione più dotta, parlava l’idioma del good design, mentre nella modalità consumer, ossia negli oggetti d’uso comune, si esprimeva nello styling, ove soft e streamline erano coniugati. Il mito americano dilaga!
Non solo per la prepotente forza produttiva del colosso americano, ma anche per una larvata volontà ancillare dei soggetti politici di governo, italiani ed europei, legati in patti di solidarietà “armata” contro la sempre incombente cortina di ferro su cui ricadevano tutte le nefandezze dell’oltre-cortina (da Berlino in poi).
La tavola sinottica, che questo testo accompagna e giustifica, scandisce nell’ordito un arco di dieci anni separandolo in microperiodi; la trama delle arti visive, dello spettacolo e della musica intesse quest’ordito, sincronizza sequenzialmente la scienza, le tecniche, i movimenti di costume e sociologici, e contrappunta la “spina dorsale” ricca di terminali nervosi rappresentata dall’asse trasversale della merce sub specie design.
L’asse centrale della sinossi pone in essere una commistione tra le esperienze arte-design-moda presentando evenienze e topic-point come le Biennali di Venezia, le Triennali di Milano e le grandi sfilate di moda romane. Vediamo ora, più da vicino la grande torsione italica, che già era iniziata nel 1958, ma che si espliciterà più compiutamente nella terza legislatura repubblicana aperta al centro sinistra nel 1963 con il governo Moro. Quel “ministerio” mediava la scuola media unificata, la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’impegno a darsi una, seppur superficiale, programmazione (economica) per disciplinare una economia nazionale in preda a convulsioni dovute alla dilatazione disarmonica dei consumi.
Infatti, nuove masse di individui si erano immesse nel processo produttivo e accrescevano con il loro potere d’acquisto la mole monetaria (inflazionando). A inaugurare l’assetto espansivo del decennio in esame si posero i festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia, formalizzati con la grande mostra “Italia ’61”, a Torino, allestita entro la raggiante struttura del Palazzo del Lavoro, appositamente progettata da Pierluigi Nervi. Torino si proponeva come polo di sviluppo, come company town fattuale, a tal punto da modificare i destini italiani quella manifestazione l’apparato produttivo delle grandi imprese si mise in mostra (come essenza partecipata al boom economico) esponendo le raffinate iconografie dei più importanti designer e architetti del momento.
In quell’occasione sono soprattutto le industrie del primario energetico, del secondario automobilistico e petrolchimico e degli elettrodomestici a sperimentare la presa sull’opinione pubblica, divenendo, in tal modo, strutturanti dei nuovi miti.
Informare, attraverso i nascenti media della pubblicità a stampa, del cinema e della radio, diviene attività “imprenditoriale” e istituzionale delle aziende, ma è principalmente la televisione (e il suo controllo), che si dimostrerà il più potente mezzo di comunicazione e di persuasione sulle famiglie italiane. Si costituiscono rapidamente abitudini e consapevolezze collettive, così come bisogni reali o indotti, che acuiscono anche il fronte delle lotte antagoniste di coloro che rimanevano esclusi dall’accesso a tali risorse. In quegli anni entrano sempre più prepotentemente in scena gli oligopoli della sintesi petrolchimica come la Pirelli, la Montecatini, l’Anic, l’Eni che si dimostreranno sempre più interessate al design, in quanto procedura capace di individuare le forme più sintonizzate a un utilizzo dei materiali sintetici atti a fornire valore aggiunto alle neomerci e il cui controllo diviene fatto politico tout court.
Mentre Torino manifesta la propria propensione febbrile al primario, Milano, come terzista, si pone alla guida della civiltà del benessere, giocando il ruolo di metropoli europea. Nella capitale finanziaria lombarda si apre la grande stagione del design italiano che, nell’affermarsi e nel dilatarsi, arriverà ad assumere un carattere proprio, individuabile internazionalmente come crocevia metropolitano del progetto.
Al termine degli anni cinquanta proprio a Milano si era costituita l’associazione per il disegno industriale (ADI) e la Rinascente aveva fondato un premio: il Compasso d’Oro per ratificare le merci corrispondenti ai canoni testé enunciati. Sperimentalismo imprenditoriale, associazionismo corporativo e mercato proporranno a getto continuo nuove icone che verranno diffuse attraverso fiere di settore come il Salone del Mobile a Milano e i quattro Eurodomus, a Genova, a Torino e a Milano, tra il 1966 e il 1972.
Tutto ciò veniva partecipato dalle testate giornalistiche, recensito, anticipato e presentato nelle riviste di settore e nei supplementi settimanali dei giornali femminili, che spingevano l’immagine “autoreferenziale” dell’italian style. Il look dilagherà negli oggetti domestici tra mille feticistiche contorsioni attorno a nobilitate materie plastiche sia strutturali sia laminate. Emblematico, in quella stagione, fu il gioco di forme attorno all’oggetto sedia che portò a invenzioni e risultati formali eccellenti grazie alle tecnologie a iniezione, agli impregnati o espansi, (l’immagine delle materie plastiche subisce un cambiamento radicale) e all’imbottito che, svincolandosi dalle precedenti morfologie hard, rivestirà l’innovato uso del poliuretano espanso con forme flessibili, filanti, nastriformi, in rotoli sequenziati di cuscini dal forte impatto seduttivo.
Negli anni della Grande Svolta nasce il loisir domestico, ciò è testimoniato dalle abitazioni che si riempiono di nuovi oggetti; in primo piano vi è la cucina, definita “americana”, ove il rito del cibo tende a industrializzarsi con la diffusione di prodotti alimentari in packaging come cracker, margarina, stick gelato, cibi surgelati, liofilizzati e precotti.
Questo processo consentiva di riempire i nuovi contenitori a ruote (carrelli) dei supermercati, prelevando direttamente l’alimento-merce dagli “scaffali-libreria”, senza più la mediazione del “pizzicagnolo”, Si assiste, così, alla moltiplicazione di nuove protesi “elettrodomestiche”, utili e futili, destinate alla “signora”! Così imponevano le emergenti agenzie della “persuasione” pubblicitaria, insediate nella metropoli milanese (con dependance transnazionali), e gestite da progettisti “grafici” che avevano riconosciuto nel “domestico” il punto di forza.
I mediaman misero al centro delle loro indagini la casalinga, vero soggetto e fulcro “familiare” delle operazioni di agglutinamento consumistico delle merci, a cui inviavano candeggianti messaggi su atomizzati detersivi, ripetendo ciò che già si era consumato oltre oceano.
La Metropolitana di Milano, ultima arrivata nelle reti di subway europee, stupisce e viene portata a esempio come compimento del dettato “razionalista” della comunicazione Good Design, già studiata alla Scuola di Ulm e in tutte le formule di insegnamento e celebrazione del design.
In tutta Europa (ma anche nel resto del mondo!) i costumi si modellano rapidamente sui precetti ideologico-utopici di una Freeland, terra della “democrazia”, dove la tecnologia, ma soprattutto l’esistenzialismo, prima di marca francese, poi d’importazione anglosassone, giocava il ruolo antagonistico generazionale. Prendono forma le prime manifestazioni di protesta del mondo giovanile: l’adolescente arde nei modelli della gioventù bruciata, nel cinismo dei blousons noirs e dei teddy boys; i primi movimenti beatnik si prospettano al mondo ben pensante e familistico con punte, difficilmente comprimibili, di inaspettata audacia e violenza.L’espansione progressiva e apparentemente inarrestabile del “consumer” avviene a tempo di musica, come onda portante di un Surf-mood californiano, in cui si mixano fast-food, cibi veloci, pop-corn, patatine, noccioline, bibite, display, “favorites” e hit-parade amplificate nei juke-box.
Una Grande Disneyland: un nuovo scenario per la diffusione degli oggetti, in cui, come in un cartoon, tutto è soft e smooth. Il Bar è un qualsiasi luogo (banale) ove, bevendo la Coke di “sistema”, si mette un gettone, si premono due tasti e la pop-music inonda l’aria, avvolgendo al ritmo del rock-and-roll i corpi in saltelli e giri scanditi. Per i più distratti e provinciali il modello passava attraverso il tam-tam imitativo o i travolgenti Movie che fornivano le “dritte” comportamentali alla banlieu!
Nei primi anni sessanta, sullo sfondo della Swinging London e degli efebici Beatles, presi a riferimento, il corpo doveva essere agile e filiforme, così come veniva sottolineato anche da modelli quali Twiggy e la Hepburn; la moda si faceva bianca e fantascientifica, il metallo e la plastica vestivano Courrége. Nella seconda metà degli anni sessanta, invece, l’Occidente viene sommerso dalla grande ondata di proteste culturali e sociali, chiamata Contestazione, che scelse di vestire gli abiti del casual con presenze etno.
Ironicamente, guardando all’America, si capiscono molte cose: è una questione di “fuso orario”, lì, infatti, le cose avvengono prima! John Fitzgerald Kennedy fu eletto presidente nel 1961 dando definizione alle aspirazioni di una popolazione sempre più politicizzata. Mentre sul fronte interno il neopresidente faceva avanzare il movimento dei diritti civili, in politica estera incappò nella tipica contraddizione “imperiale” dell’amministrazione americana: la rivoluzione castrista a Cuba.
Per Kennedy si verificò quel singolare incidente di percorso che fu il fallimento dell’invasione alla Baia dei Porci, con il conseguente antagonismo, nel terrore, delle due superpotenze: la Crisi dei Missili a Cuba.
Anche il movimento per i diritti civili, che si andava diffondendo negli States, produceva tensioni e conflitti che sfociarono nell’assassinio di Martin Luther King e nelle rivolte razziali di Los Angeles, Chicago, New York e Cleveland. Figura di rilievo e di indubbia statura politica di quegli anni è Malcolm X, che finirà tragicamente. La potenza del suo discorso si radicalizzò nel movimento delle Pantere Nere e nel famoso gesto del pugno chiuso con cui gli atleti di colore fecero il saluto ai giochi olimpici di Città del Messico. Il sogno giovanilista americano venne infranto, nel 1963, dalla reazione conservatrice; JFK venne assassinato a Dallas e nella congiura vennero inghiottiti parecchi ideali giovanilisti. A Chicago vi furono violenti scontri durante la Convenzione democratica.
In Europa e negli Stati Uniti, Università e College erano diventati luoghi di socializzazione e si diffondevano la liberalizzazione dei costumi, la nuova cultura pop e l’“erba”.
Il refrain dei Beatles: All you need is love, ripetuto senza fine, era valido, ma non poteva bastare ai Figli dei fiori e alla cultura hippy, che, se in principio aveva sedotto molti giovani, finì col perdere ogni contatto con la realtà estenuata da mille discussioni e conflitti.
Vi era chi voleva estendere l’educazione superiore e chi predicava la descolarizzazione, chi voleva stabilire rapporti familiari stabili e chi professava la libertà comportamentale ed erotica, chi rifiutava ogni apporto tecnologico e chi usava tecnologie “dolci”, chi credeva nell’organizzazione sociale stabile nella forma Stato e chi nella dissoluzione costante in forme aggregative anarchiche. Come dicevamo, John Fitzgerald Kennedy fu assassinato nel 1963, suo fratello Bobby cinque anni più tardi. Chappaquiddick rovinò la carriera di Edward Kennedy nel luglio del 1969 e quattro mesi dopo morì il vecchio Joseph Kennedy; la Dinasty americana aveva messo in mostra i suoi fasti e le sue debolezze con le avventure sentimentali della Monroe e della First Lady.
Il movimento giovanile guarda e partecipa dell’Africa, di quel Sudafrica ove l’apartheid produce il massacro di Shaperville e l’assassinio di Verwoerd. È il momento in cui Jan Smith guida i coloni rhodesiani in un ultimo disperato tentativo di conservare il potere bianco. Nelson Mandela viene condannato all’ergastolo. Jomo Kenyatta porta il suo paese all’indipendenza. In Biafra esplode la guerra civile sotto la spinta di sotterranei imperialismi residui.
I modelli di riferimento della Grande Svolta degli anni sessanta furono molti e fondamentali, al punto di mobilitare masse a livello planetario. In Cina Mao Tse-Tung inaugura la Rivoluzione culturale: migliaia di libretti Rossi vengono agitati dalle Guardie rosse e il nome del grande timoniere viene scandito in tutte le piazze della contestazione. Al contempo l’America Latina diviene il credo delle lotte contro l’imperialismo americano. Che Guevara mito viaggiante (ancor oggi) e agitatore politico di quella folgorante stagione fu ucciso in Bolivia mentre tentava di allargare al continente sudamericano l’esperienza castrista.
Il 1968 fu il punto di massima svolta della piega e da qui ebbe inizio il lento riflusso degli anni settanta. Nell’impero sovietico, scosso dalla Primavera di Praga, l’ordine venne ristabilito a duro prezzo; a Parigi, che aveva vissuto una seconda rivoluzione, la borghesia restaurativa gaullista manifestò sugli Champes Élysées. Chi si era nutrito dei testi di Levi-Strauss, di Marcuse, di Barthes o di Jakobson o aveva trascorso interminabili seminari su Lacan o Foucault, dopo la massima espansione di questo pensiero, si ritrasse, considerando la contrazione schiacciante e pericolosa.
Le catastrofi naturali segnarono (come sempre) anche gli anni sessanta. Ad Aberfan, in Galles, un enorme slittamento di fango uccise 144 persone. La petroliera Torrey Conyon affondò a Land’s End, in Inghilterra, quasi ad annunciare le maree nere dei decenni successivi.
Nei Balcani, Skopje fu devastata da un terremoto. In Italia le alluvioni catastrofiche di Venezia e di Firenze posero l’indice sulla incultura espansiva di un “capitalismo” ecologicamente aggressivo!
Alle catastrofi naturali si affiancarono anche quelle tecnologiche: a Cape Canaveral la Missione Apollo si concluse in una tragedia, facendo riflettere sul mito spaziale che vedeva contrapposte le due superpotenze. Stati Uniti e Russia avevano spinto la macchina spaziale all’inverosimile: erano riusciti a portare, nel 1961, nello spazio il primo uomo, Yuri Gagarin e avevano fatto allunare Armstrong nel Mare della Tranquillità!
Anche sul nucleare ci fu un acceso dibattito, relativo all’uso dei missili con testate nucleari, agli esperimenti sotterranei e negli atolli del Pacifico e alle centrali definite a “energia pulita”, che in realtà producevano catastrofi ambientali controllate e animavano una contrapposizione politica che fu l’incubo collettivo di quegli anni.
Il design procedeva, al contrario, verso l’integrazione e osteggiava gli “apocalittici”, secondo la dicotomia cara a Umberto Eco. Nell’industria aeronautica, infatti, si sviluppò negli anni della Grande Svolta, un salto qualitativo nelle tecnologie. Il primato dei “tecnologici” fu ristabilito con l’aereo americano Jumbo, primo gigante per trasporto collettivo, e con il supersonico franco-britannico Concorde, simile al russo Tupolev, in grado di attraversare l’Atlantico in poche ore di volo. Ironicamente Bob Dylan trovò la risposta a tutto questo caos in Blowing in the Wind, mentre molte donne del Movimento ne trovarono una migliore nella pillola!
Torniamo ancora a “casa”, riflettendo su alcuni argomenti e scorriamo gli eventi... La scoperta tipologica più interessante della Grande Svolta, nel settore dell’arredo, fu la componibilità, ossia, l’attitudine che un modulo-oggetto ha di comporre nello spazio tipologie d’uso complesse, sia per l’arredo domestico, che dell’ufficio. Il suo dilagare, però, e l’appropriazione che ne fecero, senza discernimento, i mobilieri d’ogni tendenza, concorse a portare l’utente, ben presto, a rifiutare la componibilità artificiosa e gli abusi di materie plastiche che l’accompagnava. La crisi petrolifera che si presentò, come una burrasca, nel decennio successivo, sostituì la “materia artificiale” con la riscoperta del naturale.
Un ulteriore affondo va portato, dopo l’excursus precedente, sul fronte del know how tecnico, ossia sugli atti procedurali e sui protocolli ratificati in pacchetti di applicabilità; le tecniche di lavorazione e l’impiego di nuove tecnologie costruttive, intervengono a rivoluzionare la forma di numerosi oggetti, dall’utensileria più minuta alle carrozzerie automobilistiche e nautiche. L’evoluzione tecnologica, apertasi con l’era spaziale, produce un enorme indotto di tecnologia sofisticata, in grado di addensare in microstrutture ingenti quantità di informazione.
Nel campo dell’elettronica e dell’ottica, si abbattono i costi di industrializzazione grazie alla miniaturizzazione e al ben orchestrato lancio di prodotti per una utenza allargata, meno elitaria, ma capace di portare il design da “bassa tiratura” artigianale raffinata a “numeri” industriali.
La ricomposizione del parco imprenditoriale muta radicalmente: le vecchie product oriented cedono il passo ed entrano le nuove “firme” marketing oriented.
Ma il processo non è semplice né indolore. Il product design tenderà ad allargare i suoi confini, non con la grande serie o diffusione, bensì con merci in grado di mantenere quote di mercato.
Torniamo ora, per un momento, ad allargare lo sguardo morfogenetico (“piega”) per capire un altro aspetto rilevante prodotto dalla torsione degli eventi: la Radicalità; l’osservazione porta in primo piano un conflitto, il Vietnam, che attraversò gli anni sessanta caratterizzando un’intera generazione e creando tumulti e sollevazioni in una instabilità dilagante. Questo dramma fu vissuto di volta in volta in modo tragico, appassionato, demoralizzato, ma soprattutto continuo, assumendo svariate colorazioni politiche. Come il fronte delle arti e del progetto visse tutto ciò? Quale rappresentazione ne fece?
Rispose con il movimento Radical o dell’Anti-Design.
Sono infatti le culture egemoni che devono mettere in evidenza, ostentare e comunicare la contraddizione tra reale-immaginario, tra desiderio-appagamento. L’egemonia culturale prevede l’enfatizzazione della costante babele, implicando con la duplicazione o biforcando nella polisemia dei linguaggi l’instabilità di un “establishment” in caduta di credibilità. Rimandi, quindi, riordini, ripercorrimenti e avanzamenti. Questo è lo snodarsi dell’accidentale cammino tra gli oggetti radicali addensati nel percorso che dichiarano contradictio, deformano i processi, rivelano molte verità e altre ne tacciono con fraintendimenti che necessitano di discernimento. Gli oggetti, presi in mano dagli attori radicali, vengono distrutti od oltrepassano il codice ovvio del mobile, divenendo performativi, installazioni sceniche che sostituiranno scene primarie.
Gli oggetti radical sembravano scatole o kit montati senza libretto di istruzioni!
Gli oggetti dell’anti-design ruppero le auratiche prospettive della pura contemplazione e visibilità, l’utilità fu annientata e derisa con un girotondo Global Tools.
Gli oggetti radical facevano uso di levigatezze, di epidermiche classicità, costringendo l’osservatore a irritanti “birignao”!
Questo non avvenne solo in area progettuale, ma accompagnò anche il fronte delle Arti con le opere della Pop art, dell’Arte povera e della Land art. Il Teatro di strada e il balletto concettuale, come spettacolo del corpo, dilatarono lo spazio del sensibile e dell’affabulazione individualistica.
Tutto era mixato con la potente tecnica espansiva musicale dei Moog e dei Syntetizer, utilizzati sia dai gruppi musicali sia dagli studi di ricerca fonologica degli studi sperimentali radiofonici nazionali. Va ricordato che a metà egli anni sessanta nasce il linguaggio Basic e fanno la loro apparizione i primi elaboratori personali (Personal computer); nello spazio volano i satelliti, videocassette e videoregistratori allargano gli orizzonti del reale iniziando quello spostamento verso il virtuale che troverà compimento negli anni novanta!
Sul fronte del design grafico vanno menzionati protagonisti come: Tovaglia, Liprandi, Provinciali, Confalonieri, Bob Noorda e il grande fondatore Albe Steiner. Tutti questi operatori visivi agirono negli anni dello stile “svizzero” segnato dal Carattere Helvetica e più tardi dall’Avantgard.
Si diffusero in quell’epoca i fogli di lettere trasferibili Letraset che permisero di compilare manufatti grafici di grande precisione, così come le penne a feltro, “pennarelli”, che aprirono una nuova prassi iconica nell’elaborazione di rapidi layout. Dopo i sonni degli anni cinquanta, si forma un fronte raffinato nell’arte del Manifesto, con una pubblicistica grafica di grande livello.
A sfondo di questa visibile grafia c’era la Milano della Torre Velasca dei BBPR, del grattacielo Pirelli di Gio Ponti e della torre Galfa di Melchiorre Bega. Anche in altri poli culturali si potevano rilevare autentici gioielli d’architettura come il Magazzino per metalli di Morassutti a Padova, il Ponte dell’ingegner Morandi o il Museo Querini e il negozio Olivetti di Scarpa a Venezia.
Nell’area veneta, che verrà, in seguito, definita Nord Est, per il suo particolare modello di sviluppo, emersero negli anni in oggetto aziende con grandi ambizioni e capacità progettuali.
Un gruppo di industriali fu compartecipe dei fondamenti del design in Italia, tra questi emersero alcune compagnie contrassegnate da marchi forti. Va sottolineato il contributo offerto dal marchio Laverda attivo nei settori moto, agricolo e camper (si veda per tutti quel seducente esempio di equilibrio fornito dalla moto 750). Va sottolineato, anche, l’apporto delle grandi produttrici di strumenti primari come la Ceccato con i compressori industriali, più a Est la Solari nella metalmeccanica di precisione e i coerenti esempi di produzione industrializzata degli elettrodomestici Rex a grande diffusione prodotti dalla Zanussi. Mentre nel polo più padano, si distingueva la Rizzato nella ciclistica e nelle piccole cilindrate, la Rima venne segnalata per le anticipazioni disegnative delle sue sedie.
Un veloce accenno va fatto in conclusione a Brion-Vega, prestigioso esempio di marchio, che con l’assetto produttivo nel Veneto e la testa pensante nel milanese ha indicato una modalità imprenditoriale di sicuro successo.
(E.L. Chiggio, La Grande svolta, in La grande svolta anni ’60. Viaggio negli anni sessanta in Italia, Skira, Milano 2003, pp. 22-31)
La mostra, curata da Virginia Baradel, Ennio Chiggio e Roberto Masiero, allestita dall’architetto Italo Rota, è un tentativo di ricreare il clima, l’atmosfera, le emozioni degli anni sessanta.
Anni di grande mutamento in tutti gli ambienti e a tutti i livelli.
È il decennio della società di massa, del boom economico, della liberalizzazione dei costumi (e dei consumi), della trasformazione della cultura, della conquista dello spazio, della contestazione giovanile, delle grandi tensioni politiche.
Davanti a un tale rivolgimento generale anche l’arte, espressione dell’individuo nella società in cui è immerso, subisce radicali cambiamenti.
Ed è proprio attraverso le arti, e in particolare arti visive, architettura e design, che la mostra vuole esprimere il senso di rottura totale con un passato che non insegna più, e dimostrare la vitalità di uno sguardo collettivo fiducioso nel presente e nel futuro, dimensioni caricate in quegli anni di sogni e aspettative.
I curatori rifiutano di fare un elenco esaustivo di tutte le esperienze coeve, ambizione d’altra parte impossibile da realizzare, e un ancor più inutile percorso didattico da scolaresca.
Insieme a Rota invece ci offrono un affascinante viaggio trasversale, uno spaccato fatto di istantanee che però mantengono tutto il dinamismo del mutamento, della svolta generale e totale dell’epoca.
Le opere, gli oggetti, le immagini esposti, accompagnati da un perfetto allestimento in stile, da proiezioni video e fasci di luce colorata, suscitano emozioni, sorprese e risvolti divertenti.
La mostra è divisa in sezioni (arti visive, architettura, design, cinema, musica, moda, politica…) non troppo distanziate tra loro, sì da creare un’isola anni sessanta nella quale le realtà si intrecciano e si contaminano, proprio come in quegli anni carichi di energie su tutti i fronti … La stagione artistica degli anni sessanta continua con i movimenti più incisivi in Europa: le esperienze individuali, ma soprattutto di gruppo dell’arte Optical, e la reinvenzione italiana del Pop.
L’Optical art è rappresentata soprattutto dai gruppi d’arte cinetica e programmata, per i quali l’opera si afferma da sé in tutta la sua valenza ottico-percettiva, al di là di qualsiasi contaminazione semantica e dell’artisticità dei materiali usati.
I programmati inoltre, creano opere che si trasformano nel tempo, e molto spesso grazie all’intervento dello spettatore, che diventa così coautore: la Tavola di possibilità liquide (1959) di Giovanni Anceschi, per esempio, se ruotata dà configurazioni sempre diverse e instabili.
Insomma da emozioni intime (Fontana, Galliano, Tinguely), da meditazioni sull’arte (Manzoni, Klein, Schifano), da giochi di sapore dada (Arman), da effetti materici ancora caldamente emotivi (Baj, Burri, Uncini), i curatori spostano l’attenzione sul valore del vedere come puro atto percettivo da rivalutare in tutta la sua pienezza e infinità di variazioni, e da depurare da ogni scoria tardo romantica venata di simbolismi e psicologismi.
Ecco allora che il Cartone ondulato (1959) di Manfredo Massironi fa bella mostra di sé col suo gioco di rientranze e sporgenze percorse dalla luce, e le opere di Bonalumi, Castellani, Uecker, Dadamaino, Mari, Vasarely, Alviani, Le Parc, De Vecchi, Boriani, Munari, Morellet, e molti altri si susseguono come testimonianze, seppur molto diverse tra loro, di una rivalutazione dell’occhio come strumento del vedere, non simbolico, non emozionato, non spirituale, ma scientifico.
Tra tanto materiale ottico-cinetico spicca l’accento provocatorio del cofanetto in legno con le opere di pane del fantomatico panettiere Giovanni Zorzon, per la “Mostra del pane” del Gruppo N di Padova, provocazione alle stanche e ripetitive esposizioni dell’anestetizzato circuito patavino.
(C. Tosato, La grande svolta degli anni ’60, in “Op. Cit.”, n. 118, Electa Napoli, settembre 2003, pp. 27-36)
IL LAVORO MESSO A NUDO DALLA SUA MACCHINA, ANCHE…
Il titolo di questa esposizione di cui la monografia si fa strumento, allude con una certa trasparenza al celebre motto/titolo di un lavoro di Marcel Duchamp e dei problemi con la sua sposa.
La scelta per un operatore ludico era d’obbligo, ma la posta in gioco è più alta e rischiosa; mettere in pubblico oscenamente ciò che di solito viene celato, il lavoro preparatorio dietro le quinte che ogni artista fa prima di una esposizione, ossia l’atto di “pulizia” in cui deterge e anestetizza i reperti del proprio duro lavoro.
Questa occupazione, non è solo fisica, ma principalmente impegno di lotta contro le persistenze fantasmatiche che gli impongono di calpestare la scena se vuole rimanere “Principe di Danimarca”.
Dubbi e incertezze amletiche assalgono da sempre coloro che fanno d’Arte qualora il loro impegno sia autentico.
Che cosa c’era da denudare? La funzione perversa del lavoro e della tecnologia nell’epoca della sua “riproducibilità” forsennata, inevitabile, essa diviene chiacchiera mistificatoria a copertura del simulacro ostentato da ogni buon mentore storico o critico che esso sia.
Ma l’aura che cingeva il capo dell’artista era caduta da un pezzo e ciononostante è stata raccattata e riposta sulla testa, tutto ciò con seguito di cori bacchici e menadi più o meno furiose… è il “system” come si dice oggi!
Qui invece si ritiene essenziale la funzione di “verità” che svolge ogni disvelamento ed è valido riproporre il rovesciamento per riportare la tecnica al suo valore d’uso, anche se oggi meno visibile (nano), alla sua portabilità, impedendone l’uso strumentale, ovvero la sua finalizzazione a scopo autoreferenziale nel globalizzato ove i giocolieri si nascondono come gnomi nelle pieghe del mondo, con le loro saghe, dalle quali sembra impossibile sottrarsi se non con modalità estreme!
Ecco come una mostra d’arte vissuta con queste modalità può ancora servire a riportare la specificità là dove era stata sottratta.
Le pagine che seguono con le loro schede sono uno strumento che evita al lettore di introdursi nella Storia obtorto collo.Il movimento alla base di queste ricerche produce instabilità e le sequenze ordinali di nuove stabilità sono un programma. Il programma quindi rende visibile l’oggetto come mutante.
L’opera d’Arte può essere manipolabile intenzionalmente o azionata in continuo da un motore, ciclica oppure aleatoria, in qualsiasi caso è la funzione di una sequenza in progressione che si rende percepibile e si dispone come opera APERTA.
Ciò significa che non si dà determinata una volta per tutte, ma si può trovare in enne situazioni fenomenologiche nel momento in cui il fruitore la percepisce o la agisce.
L’instabilità viene perseguita con il cinetismo delle parti componenti l’opera, ossia le forme, oppure tramite operatori simbolici e indicizzati.
Nella gestione degli elementi dell’opera interviene il calcolo combinatorio che studia i gruppi possibili con un numero finito di elementi in permutazione – combinazione secondo le ricerche di Bernoulli che sviluppano le possibilità che una configurazione avvenga.
Nell’oggetto programmato possiamo presenziare a (n/k) combinazione di gruppi presi k a k; oppure n! Permutazione fattoriale di n con lo scambio di posizione tra n elementi; o ancora (k>n) ove gruppi di oggetti n sono disposti k a k.
Ciò che conta per il percettivo programmato è che per le Proprietà distributive il prodotto non varia variando l’ordine e secondo il Calcolo delle probabilità si determinano i casi favorevoli rispetto a quelli possibili. Le Progressioni impongono al lavoro di ricerca la loro Gestalt!
(E.L. Chiggio, Il lavoro messo a nudo dalla sua macchina anche..., in Insight, 18 settembre 2010, Padova)
È una piacevole scoperta rivedere la figura di un maestro come Albers nell’ottica di una geometria eclettica che intende indagare e servirsi delle esperienze così ambigue, semanticamente, operate negli anni venti presso il famoso istituto bauhasiano.
Come sappiamo è a partire dal 1923 che Josef Albers insegna nel laboratorio tecnico sperimentale del Bauhaus, divenendone poi il responsabile fino al 1933, momento in cui mette a punto l’insegnamento di una disciplina, il Basic Design il cui obiettivo, secondo Albers, ma concordiamo anche ora, è quello di attivare il pensiero creativo dell’allievo mediante una pragmatica machiana del prova e correggi l’errore.
Albers iniziava i suoi corsi con delle esercitazioni prima bidimensionali e poi tridimensionali, in quanto secondo lui quest’ultime sono le forme che l’uomo persegue, con maggiore attenzione ed efficacia. Egli utilizza nei suoi corsi materiali semplici come la carta, senza l’uso di strumenti specifici al fine di ottenere molto con il poco.
Questi esercizi morfostrutturali facevano indagare allo studente le forme dei materiali tramite azioni manuali elementari: piegatura, taglio, pressione, elasticità, capacità di trazione.
Le sperimentazioni sulle texture fatte dai colleghi insegnanti presso il Bauhaus venivano sviluppate anche da Albers che però vi aggiungeva le qualità tattilo-visive espresse dai materiali e in particolare approfondiva gli aspetti percettivi e strutturali delle configurazioni ottenute tramite la manipolazione formale.
Intorno agli anni trenta, per le vicende note che stavano accadendo in Germania, il Bauhaus e di conseguenza anche i corsi di Basic Design si spostano negli Stati Uniti e Josef Albers è tra i docenti che vengono chiamati al Black Mountain College.
Durante gli anni di insegnamento americani, Albers sistematizza ulteriormente il suo insegnamento di Basic Design, ponendo particolare attenzione agli aspetti percettivi del colore e a quelli strutturali della configurazione.
Successivamente viene chiamato come docente alla Yale University e in questa sede tutta la sua attenzione è rivolta allo studio del colore, tema che viene analizzato nel famoso testo Interaction of Color del 1963, contenente tutte le sue esercitazioni cromatiche di Basic Design.
Hin Bredendieck, allievo di Albers, portò avanti con vivo interesse le tematiche morfostrutturali con l’uso di nuovi materiali, come la plastica e il plexiglas.
Egli ottimizzò molte ricerche del passato con strumenti tecnici e macchine a controllo numerico messi a disposizione dall’evoluzione tecnologica.
(E.L. Chiggio, Joseph Albers, La Lectio Magistralis, in Insight 17, marzo 2010, Padova)
Dialogo con Getulio Alviani
Chiggio: Vorrei provare con te un colloquio a distanza, una forma di pensiero dialogante, capace di impegno, ma non impegnativa, nel senso di complessità da apprendere, utilizzando frammenti concettuali di un vissuto, poiché verifico in questo ultimo periodo una forte vicinanza tra noi; sto osservando sempre con più attenzione i tuoi comportamenti per intuire quali parametri materiali adotti per determinare quelle scelte elementari, basiche che compi e che mi producono sempre una certa sorpresa; debbo ammettere che anche tu osservi il mio operare con puntualità e nulla ti sfugge.
Lo sottolinea questa mostra, qui da Santo Ficara, da te voluta, che mi ha spinto allo scoperto e vanificato le mie continue riluttanze. Ho trovato un gallerista come pochi, e di soppiatto ti ricordi, ti dissi: cosa ne diresti se mostrassi una sola ricerca?
Un solo modo di essere tra i molteplici, un modo che esaltasse la gioiosità del macchinico? Di quella stagione che ci ha visto fervidamente attivi.
Alviani: Sì, mi ricordo i primi incontri, si trattava di alcuni giovani che sorprendentemente operavano in luoghi tra loro lontani, in piccole città di provincia come Ulm o Cholet, Padova o Udine, sia in metropoli come Parigi o Vienna, che Milano o Düsseldorf.
Alcuni di noi provenivano da condizioni e da esperienze culturali e formative differenti.
Un ulteriore fatto singolare che ci distingueva era la non conoscenza dell'esistenza reciproca…
Ma quando le circostanze hanno portato a incontrarci, immediatamente ci siamo riconosciuti come soggetti di uno stesso modo di sentire, orientati verso il design e l'architettura, la sociologia o la psicologia piuttosto che alle individualità delle poetiche artistiche.
Si trattò, a mio parere, di una sorta di germinazione spontanea in cui giovani con studi disparati e occupazioni diverse, si misero a operare insieme formando gruppi di lavoro collettivo, senza che in precedenza avessero consumato esperienze scolastiche o lavorative; anzi, molti erano assolutamente digiuni di arte e solo una esigua minoranza proveniva dalle Accademie.
La cosa sorprendente è che lavoravamo con impegno su problemi di percezione, sulle immagini virtuali, sul dinamismo intrinseco dell'opera, sull'intervento del fruitore, sulla luce e sullo spazio, sulla serialità, sui materiali tecnologici utilizzando basi matematiche e forme esatte.
II tutto condotto con uno spirito nuovo, con razionalità e logica, in un'area illimitata di ricerche, per promuovere nuove modalità operative, diverse possibilità espressive, con approfondimenti fenomenici, ideologici e psicologici relativi alle problematiche visive.
I “dispositivi” bianchi e rossi, come tu li definisci, contengono questo pensiero.
C.: Sono tre anni che stiamo lavorando assieme con incontri frequenti, anzi devo dire che grazie al tuo incoraggiamento e alla tua mobilità sei l'artista che frequento maggiormente e con il quale ho deciso di adottare una forma particolare di collaborazione, molto azzardata, tramite un “operatore” che abbiamo definito alchimatico e nel quale ti muovi, vedo, con grande capacità d'acquisizione.
A.: Credo si tratti delle nostre attitudini naturali verso una coscienza dell'uomo, con un approccio vicino, per metodo, alla scienza.
Oggi come allora si vuole dare all'Arte un senso profondo, scientifico prima e conseguentemente sociale, proprio perché basato sulla oggettività scevra di ogni elucubrazione letteraria.
Praticare l'Arte come risolutrice di problemi formali, sempre verificabili, in grado di ampliare il campo della conoscenza e quindi con una forte componente didattica. Fornire esempi chiari… questo ci ha sempre accomunato.
Ti ricorderai che negli anni sessanta, pur teorizzandola, l'informazione interpersonale era scarsissima, le telefonate erano difficili, non certo rapide e non alla portata di tutti come oggi con la telefonia mobile, l'editoria artistica era quasi inesistente a documentare l'attualità, e in special modo le nostre ricerche in gestazione, nulla.
Questo non rendeva più semplice la conoscenza, però non avvenivano neppure emulazioni e plagi; ciò che veniva fatto era sempre originale.
C.: È sul problema dell'originale che stiamo attuando una confluenza, mettere in discussione le nostre opere del passato o quelle dei colleghi delle Nuove Tendenze è una forma concettuale tipica dell'“operatore alchimatico”, non c'è plagio in quanto l'originalità risiede tutta nella formulazione dell'evento posto in discussione e non sull'esecuzione tecnica che è ineccepibile.
Questa nostra inclinazione si è presentata (di questo ti porto gratitudine) con prontezza nella recezione da te messa in atto al mio rientro dopo anni si assenza dall'attività nel mondo dell'arte pura, hai dimostrato una generosità non comune; anni fa ancora ricordo mi scrivesti una sentita lettera che partecipava dell'analisi da me fatta sul clima degli anni sessanta e della loro svolta epocale in una mostra padovana al Salone, anche in questo caso cogliesti l'analiticità della sequenza storica.
A.: Forse è vero, ma non va dimenticata la generosità di cui fu campione Almir Mavignier che in Brasile aveva sentito parlare di Vantongerloo, Albers, Bill, Calder.
Vince una borsa di studio per la Scuola di Ulm, si mette a girare l'Europa a cercare e trovare operatori con le sue stesse idee e concepisce quella formidabile esperienza denominata “Nuove Tendenze” in cui tutti abbiamo concorso, perché l'inedito era una delle prerogative base del suo e del nostro operare.
Quella sperimentalità ci tiene ancora uniti. I passi della prima ora, hanno lasciato traccia!
I personaggi incontrati da Mavignier come Marc Adrian, Paul Talman, Karl Gerstener, Andreas Christen, Gerhard von Graevenitz, Dieter Roth, Heinz Mack, Otto Piene o Günther Uecker (Gruppo Zero); Piero Dorazio, Enrico Castellani e Piero Manzoni; il Gruppo N, T e GRAV; Ivan Picelj, Julije Knifer e l'Equipo 57, solo per citarne alcuni, rimarranno per lunghi anni i protagonisti della scena artistica mondiale.
C.: Allora lavoravo in uno studio di architettura come grafico e anche tu se non sbaglio collaboravi con architetti e ingegneri, facevi il designer per un'industria di materiale elettrico di Milano dove scopristi le potenzialità dei materiali riflettenti.
Ci incontrammo a Padova, allora vivevi a Udine, a poca distanza da noi, non conoscevamo le nostre reciproche ricerche; la scoperta di prassi comuni ci sorprese e parlammo a lungo delle tue prime lamiere fresate.
Ma la cosa che caratterizzava maggiormente il nostro comportamento era l'autogestione delle operazioni di presentazione dei lavori, eravamo noi stessi che parlavamo in prima persona delle esperienze del gruppo e della teoria che sottostava, non sentivamo la necessità della mediazione dei critici militanti.
In tutto questo fermento adottavamo un sistema forse troppo rigido che rifiutava il protagonismo, la commercializzazione, le gallerie private e il feticismo dell'opera unica, ma esaltava il multiplo e la serie in maniera antimetafisica oltre che il lavoro collettivo.
Un diffuso radicalismo che prendeva le mosse dall'azzeramento nordeuropeo o dal neodadaismo milanese.
Esprimevamo una Utopia che venne poi raccolta da Lea Vergine negli anni ottanta come Ultima Avanguardia.
A.: I primi anni furono pionieristici, pieni di ideali e proiezioni verso un futuro vicinissimo che sembrava di toccare, un futuro fatto di scoperte che davano energie per ricercarne altre, un futuro che potesse trasformare le cose, in meglio, far pensare che il mondo potesse vedere in noi qualche cosa di indicativo da prendere come esempio; e noi vedevamo tutto questo in una prospettiva dinamica per una totale evoluzione culturale e sociale.
Lo vivevamo così attraverso i principi e i parametri del fare di quest'arte come un'innovazione di vita. Sono gli anni in cui nacquero le mostre di Arte Programmata ideate da un artista come Bruno Munari e dal semiologo Umberto Eco che in quel periodo stava teorizzando l'Opera Aperta, era quel formidabile 1962.
Importanti esposizioni seguirono le “Nuove Tendenze” alla Querini Stampalia di Venezia, al Musée des Art Decoratifs di Parigi, allo Städtische Museum di Leverkusen.
In giro per il mondo altre mostre importanti come “Kinetic Mouvement”, “Lo Spazio dell'Immagine”, “Environments”, “Nuove tecniche nuovi materiali”, “Recherche continuélle” sino alla grande esposizione “The Responsive Eye” del 1965 al Museum of Modern Art di New York in cui si decretò il grandissimo successo della Op Art.
Ma sarà lontano e del tutto contrario alle nostre prerogative, alle premesse della maggior parte dei veri protagonisti, che avrebbero voluto un'arte diversa; questa è stata la sua tragedia, consumata in brevissimo tempo; furono equivocati i presupposti, il nostro pensiero, la nostra ideologia, i copyright furono scippati, saccheggiati.
Molti adottarono quelle immagini per fame gli usi più disparati e astrusi, volgarizzando tutto e facendone svilire i significati.
Fu persa l'energia vitale e il senso innovativo che queste ricerche potevano rappresentare per il pubblico.
Credo che il nostro lavoro non dovrà mai essere condizionato dalle mode o dal mercato, ma avere una sua vita autonoma. Lunga vita allo sguardo che approfondisce la superficie!
C.: Caro Getulio, abbiamo ancora un futuro!
(E.L. Chiggio, Dialogo con Getulio Alviani, in Alternanze Dinamiche, Santo Ficara Arte Moderna e Contemporanea, Carlo Cambi Editore, Firenze 2011)
Per quanto riguarda la vasta ricerca e produzione musicale – un altro ambito ancora della poliedrica attività artistico progettuale di Chiggio – si devono ricordare quanto meno alcuni punti essenziali. Nel 1963 assieme a Teresa Rampazzi sonorizza la sala Gruppo Enne alla Biennale di Venezia e fonda successivamente il Gruppo di fonologia musicale NPS per la produzione di oggetti sonori elettronici.
Il lavoro musicale e quello visuale accompagnano per molto tempo le riunioni del Gruppo Enne, dell’NPS e del collettivo politico facente capo alla redazione di Classe Operaia che operano nella stessa sede condensando in questo modo esperienze diverse.
Molti anni dopo i lavori elettronici NPS faranno da sfondo alla prima antologica del Gruppo Enne al Museo d’Arte contemporanea di Lodz in Polonia.
Nel 1970 Chiggio manifesta però una forte volontà di autonomia dagli stilemi ormai ristretti della percezione e della fenomenologia che sancisce ogni passo del panorama cinetico; dopo la dissoluzione del progetto politico-concettuale del “fare collettivo”, apre una serie di ricerche sulle Alternanze Bianco Rosso con macchine ottiche gioiose “che possano rivestire le forme del quotidiano con un abito di arlecchino”.
Nel 1980, utilizzando le strutture della Galleria TOT, fonda e sorregge il Movimento Ludico con installazioni e performance attuate dal gruppo TATA assieme ad architetti, artisti e al critico d’arte E.L. Francalanci curando una “Nomenklatura [nome ludico di collana letteraria]” editoriale pubblicando venti volumi verbo-visivi. Tale atteggiamento sottende un “fil rouge”, lo stesso che ancora oggi attraversa unendole in un profondo significato filosofico tutte le ricerche presentate in questa esposizione antologica.
Alcune opere di design presenti in mostra testimoniano dell’impegno nella progettazione: è del 1970 il Premio SMAU per l’orologio di controllo della Solari; di particolare interesse è la collaborazione con Dino Gavina per cui cura la comunicazione d’immagine della Simon e gli incontri culturali del Centro Duchamp; le sue consulenze si sono estese a importanti aziende italiane ed estere nei settori dell’occhialeria e nella prefabbricazione leggera negli Stati Uniti.
Tra altre “dislocazioni” artistico-progettuali presentate in mostra vi è una presenza singolare – un aspetto che Chiggio ha nascosto con reticenza – rappresentata dalla collaborazione con la Schiapparelli Mode di Parigi per la quale progetta nel 1991 il rilancio del marchio e la riedizione di abiti d’artista, un tempo approntati da nomi come Cocteau, Man Ray, Dalí, Veliès, Bérard, Van Dongen, Giacometti, Fini.
Una serie di quaderni sulla visibilità, come Insight e Ichastologica, editati tra gli altri dall’autore stesso, sono sfogliabili in mostra elettronicamente: occasionati da lezioni e seminari, redatti per più di vent’anni accompagnano il visitatore mostrando l’impegno teorico delle ricerche visuali percorse. La mostra si conclude con l’attualità del lavoro di ricerca attraverso le ultime animazioni cinematiche e alcuni documenti filmici sull’impiego delle nanotecnologie.
(E.L. Francalanci, U. Savardi, Ernesto Ludovico Chiggio. DISLOCAMENTI AMODALI, Ricerche 1957-2011, Padova, 18 giugno - 17 luglio 2011)