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Ennio L. Chiggio
Quando la lettera si prende alla lettera e fa poesia
Il carattere, come lo definiscono i latini (un “font”, a detta degli anglosassoni) è una struttura visiva di rivestimento a un segno sistematico all'interno di una sequenza alfanumerica – fonetico – che va, qui in occidente, dalla A alla Z e da 0 a 9. Buffa descrizione, se ci pensate bene, non dice nulla di sensato!
Dai primi incisori lapidei ai disegnatori del Cinquecento, ai fonditori che innovano le tipologie meccaniche di incisione come Monotype è tutto un susseguirsi di invenzioni “caratterizzanti” perché una collezione di segni assuma una caratteristica particolare, con un nome, un autore, un fonditore o una stamperia che adotti il tipo e lo imponga con tanta forza da imprimere il proprio marchio e da poterne, di conseguenza, farne narrazione, storia!
Il “rivestimento” formale del carattere impone di tracciare una griglia strutturale in grado di contenere e proporzionare le aste ascendenti, discendenti, trasversali o i raccordi circolari, per giungere ai terminali “caratterizzanti” le grazie.
È singolare che siano chiamate così queste aggiunte formali delle lettere, in grado di esprimere un contrasto, una “cifra” che dà forza al “corpo” in modo da determinarne lo “stile”.
Ebbene sì, anche corpo è un bel termine “catacretico per una definizione” del carattere, sembra una narrazione di burloni del doppio senso! I termini e il lessico tipografico hanno una potente ambiguità che portano con se dalle origini dell'invenzione dei caratteri mobili gutemberghiani.
Ma ritorniamo alla domanda di apertura, quand'è che la lettera si fa poesia?
E ovviamente nel nostro caso “visiva”, dopo essere stata preceduta da una fase “concreta”?
Si potrebbe assumere per la datazione una esperienza personale come l'incontro, nei primi anni sessanta, con Carlo Belloli in occasione della esposizione allo Studio Enne di Padova con opere di Poesia Concreta.
In quella sede, Belloli presentò i suoi Stereogrammi e un regesto storico dei principali autori di poesia concreta.
Ma se vogliamo apporre un sigillo più formale a questi avvenimenti dobbiamo dire che la poesia visiva è una forma dello sperimentale in Arte, di “genere letterario-pittorico” che ha operato trasversalmente tra le avanguardie degli anni sessanta e settanta intrecciando scrittura e immagine, parola e segno iconico, trasponendo e immettendo, nella attualità, le modalità, già conosciute fin dalla antichità, del rendere “visibile” un testo letterario.
Tra parola designante l'oggetto e il suo tracciato disegnato sussiste un legame forte che rende impossibile qualsiasi separazione tra i due. Se ostacoliamo una formulazione grafica o pittografica dell'oggetto che viene evocato dalla parola impediamo la formazione del nesso con il mondo, dell'immagine mentale dell'intorno!
La parola e le cose… Magritte, Foucault e tutto il resto! Dal 1950 in poi si susseguirono ricerche artistiche con esperienze verbo-visuali con una schiera di nuovi protagonisti come, oltre a Belloli, De Campos, Gomringer, Brossa, Rot, Gappmayr, Furnival, Spatola, Bentivoglio, Gut, Vicinelli, Novak, Valoch, Katue, Shimizu. È a questa pattuglia di iniziatori che faccio riferimento nelle mie escursioni visive, qualche sbirciata dall'uscio riservata anche all'oriente e ai calligrafi giapponesi.
(E.L. Chiggio, da Insight, n. 10, 2007, Edizione Embtool)
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